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Velletri si rituffa nel passato con la Festa di Sant’Antonio Abate

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sab2Dopo le pesanti ripercussioni dovute al maltempo, che hanno pregiudicato il corretto svolgimento della passata edizione, torna a Velletri, nel fine settimana, l’attesissima Festa di Sant’Antonio Abate, organizzata come ogni anno dall’Università Mulattieri e Carrettieri. Dopo il triduo di preparazione la festa entrerà nel vivo sabato 18 gennaio, per concludersi nel tardo pomeriggio di domenica. Ad arricchire la programmazione la Sagra d’à polenta e d’i zampitti. 

Come ogni anno anno la domenica mattina, alle 8.30, in piazza San Francesco, nel quartiere medievale veliterno che fa da cornice alla chiesa di Sant’Antonio, ci sarà la tradizionale benedizione dei cavalli e dei cavalieri; si proseguirà in piazza Mazzini con le premiazioni della miglior bardatura e il miglior balcone addobbato. Alle 12, in piazza Mazzini, sarà la volta dell’attesa aggiudicazione dello Stendardo raffigurante Sant’Antonio Abate, che avverrà attraverso un’asta pubblica.

Alle 14.30 in via Metabo la seguitissima Giostra all’Anello e l’assegnazioni dei Trofei Remo Strillozzi e Otello De Masi. Da seguire anche il mercatino dell’antiquariato, la gustosa distribuzione gratuita di ciambellette al vino, la favata con vino locale ed altri prodotti tipici a volontà.  Lungo il percorso tra via Metabo,  piazza Caduti del Lavoro, piazza Mazzini, via delle Mura e via del Corso sarà tutto animato da balli, animazione, spettacoli di artisti di strada per adulti e bambini, cortei e caroselli scenografici. Alle 17.30 la distribuzione delle ciambellette velletrane e la favata di Sant’Antonio faranno da preludio alla Santa Messa di chiusura, seguita dai fuochi pirotecnici che daranno l’arrivederci alla prossima edizione.  

 

VIAGGIO NELLA STORIA DELLA

FESTA DI SANT’ANTONIO ABATE

(tratto da ‘Le Tradizioni Velletrane’ di Roberto Zaccagnini)

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La festa di Sant’Antonio Abate è molto sentita a Velletri, e in genere in tutto il mondo contadino.  L’affetto della gente di campagna per questo santo ha una interdipendenza con l’iconografia che lo ritrae sempre in compagnia di animali da cortile.

 

Il maiale dei santini

   La presenza del maialino a fianco di Sant’Antonio, nei santini, viene spiegata in diversi modi.  Negli aneddoti sulla vita del santo ricorre spesso il porcello, e già questa familiarità basterebbe a darne giustificazione.  Ma di Sant’Antonio sono note le tentazioni, che il demonio procurava al santo eremita durante la sua vita ascetica, e che ispirarono simpatiche canzoni della tradizione popolare.  Tanto che la simbologia lo raffigurava inizialmente con un diavolo tentatore.  Spesso raffigurandosi il demonio in porco, accadde che il popolo, senza indagarne il significato, prese ad affezionarsi all’animale, tanto da considerarlo fedele compagno del santo.  Si finì col riprodurre immagini di Sant’Antonio dove al maiale s’aggiungevano innocui animali da cortile, e ciò spiega le benedizioni degli animali che si tengono in molte città nel giorno dedicato al santo, oltre la devozione che il santo riscuote nell’ambiente rurale, dove viene tenuto a custodia delle stalle e a protezione dei campi.

   Ma tutto questo s’intreccia con motivi più antichi, come l’uso dei romani di sacrificare una scrofa gravida durante le Feste Sementine, all’inizio del nuovo anno, o il culto di popoli antichi per il cinghiale.  Nel medioevo si usava il grasso di maiale per curare il cosiddetto fuoco di Sant’Antonio, e i frati Antoniani erano autorizzati ad allevare maiali che, riconoscibili da un marchio, potevano gironzolare liberamente per la città.  Sui nostri Statuti municipali del ‘500, infatti, più d’un articolo fa divieto a chiunque di mercare il porco col merco di S. Antonio.  Se un allevatore lo faceva, allo scopo di far scorrazzare i propri suini per la città, i frati Antoniani potevano catturare l’animale, ucciderlo e farlo proprio.   A ciò s’aggiunga, tra le tante leggende che coloriscono la vita del santo, una gustosa storiella che ha per protagonisti lo stesso, il diavolo e un porcellino: dopo tutto questo, pensiamo che il suino possa disporre a pieno diritto di un suo posto sui santini.

 

sabIl santo dei contadini

   Da noi si è tornati in tempi recenti a ristampare il Lunario di Sant’Antonio, un foglio calendario nel quale sono indicati i cicli lunari, utili al contadino per programmare i tempi di semina e raccolta secondo i metodi tradizionali.  Anche i compensi per i braccianti pare venissero stabiliti in quel periodo, e prova ne sia il detto: “Sant’Antogno velletrano, a tre lire l’aquilano”, alludendosi ai braccianti agricoli qui provenienti dall’Abruzzo, oltre che dalle Marche.

   I riti per la festa di Sant’Antonio, come quelli di altre feste religiose, sono oggi passibili di spostamento alla domenica più vicina.  Un tempo, già dalla mattina presto, i contadini venivano in città per recarsi in visita all’antica chiesa dedicata al santo, per poi tornarsene nei campi.  Ma chi poteva, e questo accade ancora oggi, restava nei paraggi ad aggirarsi col vestito buono, a seguire le funzioni religiose, i festeggiamenti, e a godere l’aria di festa che si respira nel quartiere e nelle piazze vicine.

   Sant’Antonio Abate è detto “Sant’Antogno de gennaro”, o “Sant’Antogno co’ ‘o pórco”, per distinguerlo da quello di Padova festeggiato in giugno.  Un proverbio avverte sul pericolo del maltempo: “Pe’ Sant’Antogno co’ ‘a barba bianca, o neve o fanga”.

   Come in ogni festa di santo venerato in una determinata chiesa, oltre alla visita si suole segnare una messa, cioè lasciare un’offerta per la celebrazione di una messa in suffragio di un congiunto defunto.  Chi segnava una messa a Sant’Antonio nel giorno della festa, riceveva un cartoccio dei tradizionali confetti, preparati con liquore e anice.  Il bicchierino di vermouth, o liquori aromatici come anice o mistrà, sono ancora tipici della festa di Sant’Antonio, e si offrono nei piccoli rinfreschi apparecchiati in casa, o sotto il portone, per gli addetti alla festa che recano nelle case lo stendardo con l’immagine del santo.  In tempi più recenti, cioè dalla prima metà del ‘900, nel giorno della festa si preparano i biscottini di Sant’Antonio.  Trattasi fondamentalmente degli stessi biscottini di Santa Lucia i quali, a loro volta, sono la versione più povera dei già descritti biscottini di Natale.   Ma essendo la festa di Santa Lucia meno popolare e frequentata di quella di Sant’Antonio, quei tradizionali biscottini furono arricchiti con altri ingredienti dalle donne del quartiere di Sant’Antonio, e cominciarono a comparire sulle bancarelle a ridosso della chiesa, nel giorno della festa.

 

sab4L’Università Mulattieri e Carrettieri

   I festeggiamenti civili in onore di Sant’Antonio sono affidati a un comitato, un tempo composto in gran parte di contadini e allevatori.  Trattasi della Università dei Mulattieri e Carrettieri, oggi ricostituita in ricordo di quella Università dei Mulattieri costituita agli inizi del ‘600, ma già in precedenza aggregata ai Maniscalchi.  Essa apparteneva a quelle Università delle Arti che raccoglievano le classi produttive cittadine ai tempi dei Comuni.  A tale sodalizio sono affidati i festeggiamenti civili in onore del santo.  Anni addietro, i riti religiosi si svolgevano il 17 gennaio, e quelli civili la domenica successiva, mentre oggi si conclude tutto nella stessa domenica, salvo il collegamento con altre manifestazioni civili nei giorni vicini.

 

Lo stendardo e la cavalcata

   Fino alla fine dell’800, era in uso affidare lo stendardo alla cura e alla devozione di un fedele, nel periodo tra una festa e la successiva.  Ma non doveva essere uno stendardo troppo artistico, se il primo di cui si ha notizia risale al 1899, dipinto da Aurelio Mariani proprio, verosimilmente, per iniziare la tradizione dell’affidamento con vendita all’asta.  Questa entrò in uso per il sostentamento della chiesa, l’organizzazione della festa, e per gli scopi caritativi del sodalizio.  Perciò nella domenica successiva alla festa, lo stendardo di Sant’Antonio veniva messo all’incanto nella stessa chiesa, dopo di che il vincitore usciva trionfante, montava a cavallo e, mentre il cappellano dell’associazione benediceva uomini e bestie, si iniziava il giro della città tra squilli di tromba e sfoggio di bardature.  Poi, per il gran concorso di pubblico, la gara d’asta fu spostata nella vicina Piazza Mazzini, dove ancora oggi si svolge.  Gli squilli di tromba che salutano la conclusione dell’asta, e che ogni tanto echeggiano dal corteo che accompagna lo stendardo, consistono in un distintivo motivetto di una dozzina di note abbastanza alte.  Vi fa ancora eco qualche anziano, con la scherzosa incitazione “Sòna, Giachemè!”, manifestazione di esuberanza popolare, invalsa quando gli squilli erano eseguiti da tale Umberto Cinti, detto Giachemèlla, il più famoso trombettiere degli anni d’oro della cavalcata, i decenni a metà del XX secolo.

   Lo stendardo, che in qualche modo rappresenta il labaro dell’Università, viene affidato per un anno, fino alla festa successiva, al miglior offerente, e lì si danno convegno i contadini benestanti per aggiudicarsi il venerato gonfalone.  La città segue con attenzione lo svolgersi dell’asta che spesso raggiunge cifre considerevoli, anche perché pare accertato che dal prezzo dello stendardo dipenderà, in maniera direttamente proporzionale, il prezzo del vino durante l’anno.  L’aggiudicazione dello stendardo, sempre salutata da squilli di tromba e da grida di “Viva Sant’Antonio”, dà inizio alla cavalcata preceduta, secondo vecchia tradizione, da rituali tre giri intorno alla fontana di Piazza Mazzini: un drappello di cavalieri, che negli ultimi anni è assai aumentato, si esibisce mostrando sui cavalli la più bella bardatura, decorata con immagini o scritte inneggianti a Sant’Antonio, e varie decorazioni e intrecci nella coda e nella criniera.  Anche i balconi e i davanzali lungo il percorso dello stendardo vengono riccamente addobbati.

   Prima che il vincitore dell’asta entri in possesso dello stendardo, esso si porta, accompagnato dal corteo di cavalli, a visitare le case di chi ne ha fatto richiesta.  Lo stendardo può essere toccato soltanto con guanti bianchi, di cui è munito il cavaliere che precede il corteo, e viene fatto entrare negli appartamenti passando per la finestra.  Chi collabora all’operazione, prende lo stendardo con un panno o un tovagliolo.  Si dice che sia pure proibito farlo passare per la porta, ma a noi pare più sbrigativo proprio il passaggio dalla finestra grazie alla sua lunga asta, spesso tramite passamano dalle finestre, per raggiungere i piani più alti.  Infine si reca lo stendardo all’ospedale, dove è tenuto brevemente esposto alla devozione dei malati.

   Il detentore dello stendardo è obbligato a custodirlo in luogo sicuro e appositamente destinato, che non può essere precluso al pubblico.  Perciò egli deve tenere una stanza della casa per l’esposizione dello stendardo, e dovrebbe permettere a chiunque di rendergli omaggio: eventualità, quest’ultima, della quale non s’è mai sentito parlare.  Probabilmente per evitare che al di là della festa in onore del santo, della devozione del popolo e del detentore, lo stendardo diventi intrinseco oggetto di culto, è proibita la sua conservazione in qualsiasi chiesa, ivi compresa quella di Sant’Antonio.  Si debbono poi tenere per tutto l’anno dei fiori e un lumino costantemente acceso davanti lo stendardo.  Nei tempi passati, il detentore dello stendardo godeva di immunità civile e penale, anche se limitatamente all’interno delle mura domestiche.  Le cronache non narrano di acquisti dello stendardo per interessi legati a questo privilegio, anche se gli sbirri avrebbero potuto ben aspettare una qualsiasi uscita del finto devoto, o quantomeno la riconsegna del drappo nell’anno successivo.  Lo stendardo, insolito per una congregazione di lavoratori in quanto molto grande e a carattere devozionale, dovrebbe per regola essere rinnovato ogni 25 anni, rimanendo quello vecchio in custodia all’ultimo assegnatario.  Ma non sempre fu così: il più vecchio di cui si ha traccia risale al 1899, opera di Aurelio Mariani.  Il secondo, della prima metà del ‘900, fu assegnato definitivamente nel 1967.  Quello del ’68 passò di mano nel ’92, e quello del ’93 fu ceduto nel ’99 in quanto si stabilì che, per l’anno giubilare 2000, ne fosse confezionato uno nuovo.

 

sab5La corsa all’anello

   I cavalieri che partecipano alla festa si sfidano nel pomeriggio o in altro giorno secondo i programmi, nella tradizionale corsa all’anello, che con alcune varianti nei regolamenti arriva a noi fin dai secoli successivi al medioevo.  I cavalieri, avviata la bestia al galoppo, cercano di infilare e portar via un anello pendente a mezz’aria, tramite un corto pugnale di legno.

   Precedentemente, la corsa all’anello era compresa nei festeggiamenti del carnevale, in aggiunta ad altre corse equine come quelle dei barberi che si svolgevano nell’800.  Abbandonata a metà del XX secolo, l’Università dei Mulattieri e Carrettieri la riprese nel 1956, inserendola nei festeggiamenti di Sant’Antonio.  Recentemente se ne sono ideate altre simili con spirito di ricostruzione storica, come il Palio delle Decarcie che, riproposto a partire dalla Festa dell’Uva del 1996, ha riportato in piazza il Saraceno della Quintana.

   E infatti, la corsa all’anello prende origine proprio dal gioco della Quintana, diffuso in molte città, e praticato anche a Velletri nel medioevo.  In una delle piazze principali veniva posto un fantoccio rappresentante un Moro, o Saraceno, da cui anche il nome di Giostra del Saraceno.  Esso, impalato su un’asta in modo che potesse girare su se stesso, teneva un anello nella mano sinistra, tesa di fianco, e un bastone nella destra, tesa leggermente in avanti.  Il cavaliere, avviato a gran carriera il cavallo, doveva infilare il pugnale o la lancia nell’anello, per toglierlo con destrezza dalla mano del fantoccio.  Se colpiva la mano, o anche con violenza l’anello, il fantoccio girava su se stesso, mollando una sonora legnata sul groppone del cavaliere.  Nei secoli successivi il Saraceno fu eliminato, e l’anello fu fatto pendere da un congegno che, sistemato sotto un arco bellamente decorato, lasciava gradatamente scendere gli anelli, via via che essi venivano presi.  Identico congegno è oggi ancora in uso, senza il bell’arco che pare scomparisse misteriosamente intorno al 1849, nel turbolento periodo della seconda repubblica romana.

   In una incisione del Pinelli, datata 1825, è illustrato il Gioco dell’Anello, usato nei paesi vicini a Roma.  Trattasi di una mediazione tra la giostra del Saraceno e la moderna corsa all’anello, in quanto al cavaliere maldestro toccava comunque una sgradita sorpresa, seppur meno pesante della legnata del Saraceno: l’anello era fissato sotto il fondo di un grosso paiolo, basso e largo, pieno d’acqua, basculante a mezz’aria.  Se il cavaliere colpiva l’anello ma non riusciva a staccarlo con destrezza, lui e il cavallo prendevano un’abbondante doccia.

   Le antiche corse all’anello si svolgevano nelle parti superiore e inferiore di Velletri.  Le prime partivano da Porta Romana e, lungo la Via Corriera (l’attuale Corso) arrivavano in Piazza del Trivio (Piazza Cairoli).  Le seconde avevano un tragitto più breve, prendendo le mosse all’incrocio tra il Corso e Via Furio, e terminando in Piazza Mazzini, allora Piazza del Piano.  Dopo l’inclusione della corsa all’anello tra i festeggiamenti per Sant’Antonio, la corsa continuò a farsi su quest’ultimo tratto, essendo esso prossimo alla chiesa, e ciò fin dopo la metà del XX secolo.  Se ne ricordano poi alcune in Viale Oberdan, dopo di che fu eletta come pista ideale la salita di Via Metabo, da Piazza XX Settembre fin davanti la Cattedrale di San Clemente, dove tuttora si svolge.  L’intera città accorreva alle corse e si assiepava ai lati della strada, e nel medioevo intervenivano anche le autorità cittadine in pompa magna.  Il grande assembramento e la fanatica partecipazione costrinsero per secoli il Municipio ad emanare editti e severi ordinamenti sia per regolamentare le corse che per disciplinare il pubblico presente.

 

I faóri

    Altra tradizione appartenente alla festa di Sant’Antonio è quella dei faóri, cioè i falò che nelle campagne si accendevano alla sera della vigilia, negli stazzi.   Detti anche  favóri  nella dizione dialettale che può interporre la “v” tra due vocali, possiamo ravvisarvi il greco phaos (luce), phanós (lanterna), e gli italiani  falò, faro, fanale, fàlera, favilla, eccetera.   Mazzi di canne legate a capanno venivano incendiati dal basso e, man mano che il fuoco divorava la base, battuti a terra per togliere i tratti bruciati, per mantenerli in piedi fino a completo esaurimento del fuoco.  Ragazzini festanti giravano intorno al fuoco gridando “Eviva Sant’Antogno”, mentre dai punti panoramici della città la gente si affacciava per godersi lo spettacolo dei tanti fuochi accesi nella campagna.

   Anche in città si accendeva un grosso fuoco, fin dopo la metà del ‘900, nei pressi della chiesa di Sant’Antonio.  I ragazzini facevano a gara a portare legna, tanto che spesso il falò si esauriva alla sera del giorno successivo.  Gran parte della legna proveniva, proprio grazie a quei ragazzini, dalle vigne della periferia, e spesso pagata a caro prezzo rimediando calci e bastonate.  Non sembri esagerato, se si pensa all’importanza della legna in un’epoca in cui ancora mancava, nelle campagne, l’energia elettrica.  Molti ragazzi di allora, ancora si chiedono quanto benedetto potesse essere quel fuoco, fatto di legna rubata, e accompagnato dalle imprecazioni dei derubati.

   L’usanza del fuoco viene anch’essa dalle antiche feste romane cui abbiamo già accennato in inizio parlando del maialino di Sant’Antonio, e cioè dalle Ferie Sementine, che si celebravano con l’inizio dell’anno nuovo.   Si accendevano dei falò a simboleggiare purificazione, trasformazione, attesa della primavera.  Gli animali venivano guarniti con ghirlande ed esonerati dalle fatiche, mentre si faceva una gran pulizia generale nelle case e nelle campagne.  Le ceneri di quel fuoco, ritenute benefiche, venivano raccolte e conservate.  Da quei falò deriva lo stesso favóre di Santa Lucia che in altre tradizioni, ma anche da noi, si brucia a metà dicembre.

   Popolarmente, il fuoco viene associato a Sant’Antonio per molte leggende, una delle quali, conosciuta in alcune regioni, narra che un tempo gli uomini erano senza fuoco e, avendo freddo, chiesero a Sant’Antonio di fare qualcosa.  Il santo si recò all’inferno accompagnato dal suo inseparabile maialino, ma i diavoli lo riconobbero e non lo fecero entrare.  Riuscirono però a rubargli il maialino, che cominciò a scorrazzare combinando un sacco di guai.  Quando i diavoli richiamarono Sant’Antonio per fargli portar via l’animale, il santo riuscì a far prendere fuoco al suo bastone e, tornato sulla terra, incendiò una catasta di legna, donando il fuoco agli uomini.  Nella tradizione velletrana, la leggenda subisce una variante, secondo la quale non fu Sant’Antonio a carpire il fuoco, bensì il maialino che si fece incendiare le setole del groppone.

   Da queste leggende nascono le connessioni tra il fuoco e Sant’Antonio, tanto che nelle immagini sacre, tra gli altri simbolismi, appare anche un fuoco.  Per questo il santo è invocato anche come guaritore dell’ herpes zoster, detto appunto fuoco di Sant’Antonio.  Il bruciore simile al fuoco che l’herpes provoca, ha fatto del santo anche il patrono dei fornai, dei fucilieri e delle cucine, invocato contro gli incendi.

 

La favata

In campagna, la cena tradizionale di quella sera di vigilia era la favata, minestra di fave secche.

Favata”: Le fave si tengono prima in ammollo per almeno un giorno.  Versare fave e patate nell’acqua che bolle.  Aggiungere cipolla a pezzi, sedano, menta romana, aglio e peperoncino, quindi il sale, e un po’ di sugo di pomodoro.  Lasciar cuocere un’ora, poi buttare la pasta che si preferisce.

   Ma nello stesso pomeriggio si era ripetuta una tradizione, detta anch’essa  favata, simile a quella già celebrata qualche giorno prima con la Pasquella: i bambini delle famiglie più indigenti giravano per le case, e chiedevano, appunto, la  favata, cioè una manciata di fave secche con le quali far preparare la minestra per la sera.  Alla cena s’aggiungevano i tipici biscottini confezionati con acqua e miele, che venivano anche esposti nelle bancarelle a ridosso della chiesa di Sant’Antonio.

   Anche se ovviamente ognuno tende al meglio, la frugalità di un pasto semplice come la minestra di fave non è mai dispiaciuta al popolano, e ne sia prova, proprio a proposito di fave, il modo di dire: “Ce vònno ‘e fave che dùreno, no i confetti che scórteno”.  Si tratta certamente di una metafora per intendere altre situazioni, ma che ha valore anche in assoluto.

La festa di Sant’Antonio Abate al 17 gennaio fu istituita da Pio IX, ufficialmente coincidente con l’inizio del carnevale, pur se in teoria il carnevale si può ritenere iniziato con la fine dell’Avvento, il giorno dopo Natale.  Come poi diventò costume in ogni città dove si celebrasse il culto, a Roma si benedicevano gli animali, mentre il cardinale legato del pontefice regalava una maschera a una giovane sposa, affinché la portasse in carrozza per la città e la mostrasse alla folla, a dimostrazione che il Carnevale era arrivato.  Anche a Velletri, l’avvertimento che “oggi so’ i mmàscheri” non lascia dubbi.

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