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Vinopedia – Il tappo e il vino, dal sughero alla chiusura a vite: un rapporto in evoluzione. Quali i migliori?

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Tappi defa cura di Fabio Ciarla

L’invenzione del tappo di sughero, che sostituì rimedi come stracci e cere, è probabilmente alla base di una delle svolte storiche e inconvertibili per la produzione e il consumo del vino. Prima di questa innovazione era diverso (e quasi impossibile) il modo di conservarlo e soprattutto era probabilmente diverso il vino stesso, dovendo sopperire ai danni causati dall’esposizione all’ossigeno con aggiustamenti e fortificazioni varie. 

Il tappo per il vino è quindi da secoli in sughero, un materiale naturale che grazie alla sua elasticità si è sempre adattato alle aperture dedicate (non solo nelle bottiglie ma anche nelle damigiane e nelle botti) con ottime prestazioni. Attualmente ricoprire ancora la maggioranza delle chiusure per vino al consumatore finale la quasi totalità per quanto riguarda i vini spumanti e i vini rossi di grande invecchiamento. I guai di questa soluzione arrivano proprio dal suo essere “naturale”, quindi soggetto a contaminazioni (che poi danno il cosiddetto sentore di tappo) e ultimamente in quantità sempre più scarse. Sulla difettosità dovuta al TCA (Tricloroanisolo) le grandi aziende hanno lavorato implementando la manualità tipica della lavorazione con soluzioni tecnologiche di alto livello e l’hanno ridotta fino a percentuali vicine al 3% del totale. Per la possibilità di offrire sul mercato prodotti di alta qualità, considerando che una quercia da sughero impiega venti anni per produrre le prime cortecce buone, c’è invece poco da fare se non programmare e sperare in bene. Il colosso del settore sughero è la portoghese Amorim Cork (http://amorimcorkitalia.com), la cui filiale italiana si trova in Veneto ed è diretta da Carlos Santos, mentre i territori più vocati per la produzione sono la Penisola Iberica, la Sardegna e le coste nordafricane.

Le novità nel mondo delle chiusure arrivano, al contrario di quanto succede per prodotti enologici e tecnologie di cantina, dal nuovo mondo. Nasce quindi negli Stati Uniti il tappo sintetico, attualmente prodotto (parliamo del meglio nel settore) con la tecnica di co-estrusione. Una soluzione da molti ritenuta poco affascinante e comunque non adatta ai vini di pregio a causa della bassa qualità iniziale di questi prodotti. Ora però il colosso del settore, la Nomacorc (http://www.nomacorc.com) che ha sede europea in Belgio, ha realizzato tappi molto efficienti e addirittura sta cominciando a commercializzarne uno a zero impatto ambientale grazie all’utilizzo in parte di polimeri di origine vegetale e in parte per la compensazione attuata rispetto alle altre componenti che utilizzano comunque polimeri di origine fossile. 

Nell’emisfero sud impera  invece un’altra innovazione, ovvero il tappo a vite. Quantomeno Australia e Nuova Zelanda sono i Paesi che lo usano di più, sebbene proprio in Italia abbia sede il primo produttore mondiale ovvero il gruppo Guala Closures (http://www.gualaclosures.com/it). Da noi, soprattutto nel Lazio, la capsula a vite è stata sempre identificata con vini di bassa qualità, quelli nei boccioni da 2 o 5 litri. Non è invece questo il rapporto che ha nei Paesi citati e in altre zone di produzione dove, ad esempio, si imbottigliano soprattutto bianchi profumati. Proprio la capacità di conservazione in assenza assoluta di passaggio di ossigeno data dalle capsule a vite ha infatti ripercussioni positive su vini delicati e aromatici.

Rimangono poi esperienze con i tappi a corona (quelli delle birre per capirci), progetti sulle chiusure in vetro (quasi velleitari dal punto di vista numerico), e il fraintendimento più diffuso nell’ambito vinicolo mondiale, ovvero il tappo agglomerato. Avere di fronte un tappo “in sughero” significa vedere nettamente la consistenza di singolo pezzo di sughero ricavato da una porzione di corteccia (anche detto “monopezzo”). Quasi sempre però, su vini di fascia bassa e media, troviamo tappi composti da polveri più o meno fini di sughero, incollate con materie sintetiche per dargli la forma desiderata. Il fraintendimento nasce dal far ricadere questi tappi nella generica definizione di “naturale”, confondendo ancora di più il consumatore, il quale vedendo una chiusura alternativa (sintetico o a vite) pensa ancora a un vino di bassa qualità mentre per l’agglomerato mantiene quell’elemento distintivo di eccellenza che invece va riservato solo al sughero monopezzo (il più costoso in assoluto se di qualità). Questo non significa che i tappi agglomerati, nelle loro varie forme, siano chiusure di bassa qualità, anzi esistono vari esempi di pregio, ma la questione di principio a mio parere rimane aperta.

La definizione delle chiusure presenti in commercio introduce la questione essenziale sull’uso dei tappi: qual è il migliore? La domanda non ha risposta sia perché esistono vini diversi con esigenze diverse, sia perché in effetti cambiando la chiusura cambia, in parte, il modo di fare vino. O almeno il modo di imbottigliarlo. Discorso lungo, che possiamo solo accennare. Chiusure a maggiore o assoluta tenuta, come quelle a vite, non prevedono scambi di ossigeno con l’esterno quindi il produttore dovrà inserire un vino potenzialmente “pronto”, che non ha necessità di affinamento e che risulterà probabilmente del tutto simile dall’imbottigliamento all’apertura.

Discorso diverso per il sughero, che invece per sua stessa natura ha la capacità di far “respirare” il vino, lasciando passare piccole quantità di ossigeno nella bottiglia, utili all’affinamento del vino stesso. In questo caso il produttore può scegliere la lunghezza del tappo e immettere in bottiglia un vino ancora acerbo, sperando di trovarlo maturo quando ha idea di berlo. Se quindi parliamo dell’eccellenza, i cosiddetti fine wines ovvero i grandi rossi da invecchiamento, è bene sapere che si chiudono con il sughero monopezzo da secoli e i risultati sono sempre stati all’altezza. Per le nuove chiusure c’è ancora molto da dimostrare prima di poter essere usate senza timori su un Barolo che si conta di aprire magari tra 30 anni, sul resto di può discutere.

 

Brunello Riserva Le ChiuseLa bottiglia della settimana

Brunello di Montalcino Riserva DOCG 2007 – Le Chiuse (www.lechiuse.com

Dopo qualche bottiglia tra Lazio e Umbria passiamo ad uno dei vini più richiesti e di valore che vanta il nostro Paese, ovvero il Brunello di Montalcino. Ne parliamo con la Riserva 2007 de Le Chiuse, azienda storica che vanta una discendenza diretta con la famiglia che ha dato vita al Brunello (l’attuale proprietaria Simonetta Valiani è nipote di Tancredi Biondi Santi). Vino premiato e sicuramente un po’ caro allo scaffale, ma decisamente di grande importanza. Formato da sole uve sangiovese grosso raccolte a metà ottobre, il Brunello Riserva de Le Chiuse subisce una macerazione con le bucce di oltre 30 giorni, per poi passare all’affinamento in botti di rovere grandi della durata di 48 mesi, fino all’imbottigliamento che per questa annata è avvenuto nel maggio 2012. 

Il vino che ci troviamo di fronte è complesso e ricco, come si conviene ad un’etichetta così importante. L’impatto al naso è forte e pieno, con profumi terziari (quelli derivanti dall’affinamento) che fanno della degustazione di questo Brunello Riserva un momento coinvolgente oltre che piacevole. L’assaggio conferma quanto apprezzato dalle vie aeree, con un’eleganza senza paragoni e un tannino ammorbidito dai 4 anni in legno che tuttavia non hanno coperto la freschezza e la franchezza del sangiovese. Sicuramente non è un vino da aperitivi o da bevute in allegre compagnie, merita rispetto sia per i 14,5 gradi alcolici sia per l’autorevolezza con la quale si esprime. Se però volete degustare uno dei più grandi vini italiani allora si, potete accostarvi al Brunello di Montalcino Riserva 2007 de Le Chiuse.

Prezzo: 90/100 euro in enoteca*

* I prezzi sono puramente indicativi e posso variare anche in maniera considerevole

 

 

Piccoli sorsi – Nozioni e termini tecnici dell’enomondo

Barrique

La barrique è una piccola botte molto usata in Francia, dove ne esistono di differenti tipologie (le più note da 225 o 228 litri), che ha avuto un grande successo negli anni novanta grazie alla moda dei vini del periodo. Se usata di primo passaggio, quindi nuova, per lungo tempo conferisce al vino forti sentori di vaniglia e di affumicato per la tostatura del legno (di solito rovere), coprendo sostanzialmente i sentori tipici del vino stesso. Ultimamente il loro utilizzo è stato molto ridotto, puntando su passaggi brevi e sulla riscoperta di “legni” più grandi e meno invasivi come le grandi botti dai 12.000 litri in su usate per l’affinamento tradizionale del Brunello di Montalcino. 

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