Attualità

Alla radice della Pasqua e Pasquetta dei tempi andati

pasqua

pasquadi Roberto Zaccagnini *   

La Pasqua è festa ebraica e cristiana.  Per gli ebrei celebra la liberazione dalla schiavitù d’Egitto e l’esodo verso la Terra Promessa.  Per i cristiani commemora la Resurrezione di Cristo.  E’ una festa mobile, e cade nella prima domenica dopo il plenilunio successivo al 21 marzo, inizio della primavera, e perciò tra il 22 marzo e il 25 aprile.

A Velletri si distingueva la Pasqua di Resurrezione da quella di Epifania, denominandole “Pasqua coll’òva” e “Pasqua Befanìa”

Il fuoco santo

  Nella tarda serata di sabato, vigilia della Pasqua, fuori le chiese si allestisce il  fuoco santo.  E’ superfluo indugiare sulla spiegazione della simbologia, che vede nel fuoco un segno di vita e, per l’occasione, di Resurrezione.

  Fino a qualche tempo fa, l’esuberanza dei ragazzi, cui era affidata la preparazione del falò, portava a colossali roghi coi quali si gareggiava tra parrocchie.  Finivano nel fuoco vecchie panche della chiesa, arredi, oltre a grosse quantità di rami d’ulivo avanzati dalla precedente domenica delle Palme.  Oggi la portata dei fuochi è di molto ridotta, e anzi si preferisce da più parti accendere il fuoco su un braciere.  Questa riconduzione del rito a un puro simbolismo – ci si consenta di dirlo – ha fatto scemare la suggestione che caratterizzava quella sera.  Si può obiettare che è meglio badare al significato vero delle cose, e ciò è indiscusso.  Ma nel momento in cui lo stesso rituale liturgico prevede l’uso di simbolismi, è ovvio che questi abbiano, e debbano avere, una funzione evocatrice e di stimolo.  Certe percezioni variano secondo le esperienze di ciascuno, ma anche da millenni di civiltà, e per questo è fuor di dubbio che il fuoco abbia un potere evocativo, e aggregante per coloro che sostano intorno, come nessun altro elemento.  Il grande fuoco acceso in terra, perciò, non sia grande in ossequio a un bisogno di esagerazione, ma per amplificare quelle suggestioni che esso produce.  Intorno ai fuochi santi di una volta, quelle facce assonnate, quei fantasmi infreddoliti stretti nei baveri dei cappotti, davano la sensazione di un ristoro collettivo da una condizione di comune disagio, quale il freddo, l’ora tarda, l’eventuale digiuno.  Già la stessa partecipazione dei fedeli nel recare legna, o nell’accovacciarsi ad attizzare, ha la sua importanza.  Tutto ciò che dispone ai necessari sentimenti di comunità, in preparazione di quella che poi è l’essenza della cerimonia religiosa.  Ma abbiamo divagato, e forse pure a torto.

La messa di mezzanotte

   Prima di mezzanotte il sacerdote benedice il fuoco, dal quale si accende il grosso cero pasquale, solitamente decorato, e le candele di cui si muniscono i fedeli, quindi si entra in chiesa.  La candela usata in quell’occasione, o un tizzo prelevato dal fuoco, è il ricordo che devotamente qualcuno riporta in casa, per desiderio proprio o per conforto a una persona inferma.

   All’ingresso della chiesa, le acquasantiere sono tutte vuote, perché nel corso della funzione si procede alla benedizione della nuova acqua santa, e al riempimento delle conche.  Se in parrocchia v’è stata nei giorni precedenti una nascita, quella notte si celebra, con la nuova acqua, il rito del battesimo, che assume caratteri solenni perché simboleggiante, in quella adatta circostanza di comunione, la nuova vita.  Una credenza intorno al futuro del fanciullo battezzato in quella sera, lo vuole destinato a diventare uno “struggimónno”, cioè un personaggio da rispettare. Fino ad alcuni decenni fa era consuetudine battezzare i bambini entro 24 ore dalla nascita, permettendosi così di liberare un’anima dal Purgatorio.

A mezzanotte in punto

   Alla mezzanotte, simultaneamente, si sciolgono tutte le campane dei campanili, e le campanelle interne delle chiese, che erano restate legate dal venerdì.  Lo scampanio fioco ma argentino di campanili lontani, viene sopraffatto dal gagliardo rimbombo dei campanoni più vicini, mentre il febbrile tira-tira delle campanelle dà, all’interno delle chiese, l’emozione della festa scoppiata all’improvviso.  Si recita il Credo, e lo stesso fanno tutti i fedeli, ovunque si trovino.

   Nello stesso momento in cui si sciolgono le campane, v’è una sequenza di riti dettati da credenze popolari, tutti fondati sull’effetto dello scioglimento, dello svincolamento, della liberazione.  A parte le solite fucilate che si sentono echeggiare in ogni vigna, le quali non rispecchiano altro che la fregola dei cacciatori di approfittare di ogni occasione per scaricare qualche cartuccia, i contadini sciolgono gli alberi che il venerdì precedente avevano legati.

   Trattasi, se facciamo riferimento alla interpretazione che di tale gesto avevamo dato, di un ritorno alla vita, di una ripresa del ciclo vitale non solo come allusione alla Resurrezione, ma anche come ripristino del normale scorrere del tempo, dopo la pausa procurata in osservanza della mestizia delle ore precedenti.

   Altra vecchia usanza, anch’essa simboleggiata da uno scioglimento, era quelle delle madri che, alla mezzanotte, scioglievano momentaneamente le fasce alle loro creature che, sorrette, talvolta venivano incoraggiate a fare qualche piccolo passo.  Si diceva che, in quell’occasione e con quel rito, “se danno i piedi a ‘e crature”, talvolta accompagnando l’operazione con la formula: “Campane sciogliènno, ‘sto figlio scappènno”, nella speranza che fosse cresciuto sano e libero.  C’era anche l’usanza di recitare per trentatré volte il Credo, che non è poco.

   Insomma la mezzanotte di Pasqua, come la mezzanotte di capodanno, sembrano considerate momenti magici, attimi in cui si cerca di fare contemporaneamente tutto ciò che la credenza popolare consiglia di fare, o quello che si crede opportuno fare conferendo all’azione, dato il momento, tutti i significati e i simbolismi del caso.  Come se in quell’attimo fossero eccezionalmente tutte spalancate le porte del destino, in veste di fatalità laica o di provvidenza divina: chi compie un’azione a capodanno la compie tutto l’anno, e chi la compie al  passaggio della Pasqua assicura benedizioni e significati al gesto.

   Nei secoli in cui il rispetto della Quaresima era rigidamente preteso e controllato, la mezzanotte di Pasqua si festeggiava alla stregua della mezzanotte di capodanno.   Goethe, nel 1788, narra della Pasqua romana come di una guerra, e basta osservare una litografia del Thomas per capire che non esagerava: vasi di terracotta imbottiti di esplosivo, fucilate dalle finestre, razzi e petardi nelle strade… ; era insomma la fine dei digiuni, e dell’ascolto delle missioni, le prediche spesso scenografiche tenute dai frati missionari.

   Sempre al momento dello scioglimento delle campane, evidentemente considerato come solenne, si usava aver già apparecchiato la tavola per la colazione della mattina di Pasqua.  Sulla tovaglia più bella, solitamente candida, si ponevano le uova sode (òva toste) che un tempo si portavano, nel sabato pomeriggio, in chiesa a far benedire.  Esse sono tradizionalmente insaporite con i capperi, e accompagnate dal salame, la pizza sbattuta e le ciambelle di uova, farina e zucchero.  Anche le stoviglie provengono dal servizio migliore.  Ritenendosi probabilmente che alla mezzanotte la benedizione aleggiasse nell’aria, qualcuno usava già sgusciare le uova affinché l’influsso benefico penetrasse meglio.  Per lo stesso motivo si spalancava l’ arca contenente il pane, mentre si tirava il collo al pollastro che doveva essere cucinato il giorno dopo.  In alcune famiglie si sistemava decorosamente anche il letto, coperto dalle lenzuola più buone, affinché pure esso fosse benedetto.  

Le pulizie e la mutata nova 

    Intanto, già con la Domenica delle Palme erano iniziate le cosiddette “pulizie di Pasqua”, rassettando e pulendo a fondo ogni angolo di casa.  A prescindere da un sentimento di riguardo per la festa religiosa, è comunque salutare per l’economia domestica una pulizia e un riordino generale almeno una volta l’anno, specialmente col sopraggiungere della buona stagione che consente di tenere spalancate le finestre, e col bisogno di avvicendare il guardaroba stagionale.   E il buonsenso popolare non può mancare di sottolineare la scadenza: “Pe’ la parma benedetta, ‘a casa ha da èsse netta”.

   Nella settimana di Pasqua, il guardaroba non cambia soltanto per l’inizio della buona stagione: era usanza proprio in quei giorni indossare un capo nuovo, secondo quanto osservato dal detto: “De Pasqua e de Natale s’aremmùteno i villani”.  Questa “mutata nova”, che sem bra latino ma in realtà è dialetto rimasto nella sua originale forma latina, si indossava quindi il giorno di Pasqua.  Ma, come esprime il proverbio e come era consuetudine, in quel giorno a cambiarsi d’abito erano i villani.   I signori, proprio per non confondersi con essi, usavano farlo qualche giorno prima, e precisamente nel pomeriggio del giovedì santo, usando come passerella l’occasione della visita ai Sepolcri.

IL GIORNO DI PASQUA

Il giorno di Pasqua non è caratterizzato da particolari usanze, se non quella di un’abbondante colazione con le vivande che abbiamo già detto.  La mattina la famiglia si riuniva, e ancora oggi la tradizione non è scomparsa, per consumarla insieme dopo la recita del Padre Nostro.  Per i bambini v’è l’apertura dell’uovo di cioccolato, resa interessante dalla presenza della sorpresa all’interno.  Quella dell’uovo di cioccolato è una tradizione italiana iniziata alla fine del XVII secolo.  Si trovavano in vendita, e ancora oggi non sono scomparsi, dolci di zucchero in forma di agnellino, simbolo della Pasqua.

   Milanese, nata come variante pasquale del panettone con aggiunta di zucchero e mandorle, è ormai tradizionale la  colomba, dolce sagomato in forma di uccello con le ali aperte.  Essa ha ormai quasi ovunque sostituito il pane pasquale, confezionato in vari modi secondo le usanze regionali.

Disponendo, a pranzo si cucinava l’agnello, che i contadini avevano in allevamento o s’erano procurato.  Per i bambini si confezionavano grossi biscotti fatti con la pasta del pane o delle ciambelle, aventi profilo di bambola per le bambine, e di cavalluccio o fiasco per i maschietti.  In un incavo al centro del biscotto, alloggiava un uovo sodo tenuto da striscioline fatte con la stessa pasta.  ” ‘A bambola coll’ òvo ‘n panza”, chiamavano le bambine questo dolce, forse retaggio di antichi simbolismi propiziatori, come i biscotti a forma di bambola con tre mammelle, tradizionali a Frascati.  Sui biscotti dei bambini c’erano confettini colorati, detti ” ‘a seme santa”.

   Primo piatto tradizionale per Pasqua erano però le fettuccine al sugo.  Ingredienti: cipolla, sedano, pistacchi, vino, ritagli di gallina, olio.  La sfoglia è fatta in casa, con uova e farina di grano.  Lavati con l’aceto i ritagli di gallina (regagli), fegato e budelline, si soffriggono con l’olio insieme a pistacchi, cipolle e sedano.  Si aggiunge pomodoro, sale, peperoncino e un po’ di vino.

  E’ ovvio che, per il pranzo di Pasqua, anche le famiglie più umili facessero il possibile per avere una tavola conveniente all’occasione.  Se non nell’abbondanza delle vivande, almeno nella sistemazione dei coperti.  Anche una candela accesa poteva fare il suo effetto, dato che non si possono forzare le proprie possibilità oltre una realistica ragionevolezza, tanto che il proverbio ricorda: “A Pasqua ogni poeta abbusca, e ogni muórto de fame se ne casca”.  Come sempre.

Pasquetta

   Anche il Lunedì dell’Angelo, giorno cosiddetto di Pasquetta, non è caratterizzato da particolari usanze, tranne l’abitudine di una gita fuori città.  Chi abitava in campagna o disponeva di un terreno, organizzava il pranzo al quale invitare famiglie amiche, altrimenti interi nuclei familiari si spostavano per recarsi a fare picnic in periferia.

  Oggi, con l’automobile, si raggiungono anche zone lontane, ma un tempo si caricava tutto il bagaglio su ogni componente della famiglia, e si raggiungevano a piedi spazi erbosi nei dintorni della città.  Le pendici del Monte Artemisio pullulavano di gruppi familiari, che raggiungevano i luoghi prescelti percorrendo la Via dei Laghi, e recando pentolame, teglie, piatti, insalatiere, bicchieri, tovaglie da mettere in terra, e una eventuale sedia per gli anziani.

   Non essendo ancora in uso quei piatti, bicchieri e posate di plastica che oggi si trasportano con tanta facilità e bellamente si lasciano esposti a ricordo nel posto occupato, un tempo tutto il cocciame veniva riportato in casa.  Né, se s’era danneggiato, si lasciava sul luogo, ma veniva riparato.  Non esistendo tutti quei collanti speciali di oggi, periodicamente girava per le strade l’ ombrellaro il quale, oltre che riparare gli ombrelli, risanava le stoviglie di coccio.  I pezzi venivano bucati sui bordi con un trapano a mano, quindi cuciti l’un l’altro con grappe di fil di ferro, e stuccati con resina.  Quando proprio il recipiente non teneva più, si conservava per essere lanciato dalla finestra a Capodanno.

   Chi restava in campagna, s’era già attrezzato per il giorno di Pasquetta, tradizionalmente dedicato all’imbottigliamento del vino per farne spumante, operazione per la quale si deve aspettare, appunto, la luna di marzo.  Si tratta delle cosiddette “bottiglie ‘mbottigliate” di cui abbiamo già parlato per il Capodanno.

   Ma la giornata in campagna, se il tempo permette e se la Pasqua è alta, cioè se cade abbastanza avanti nella stagione, consente di organizzare la prima carciofolata, rito culinario cui i velletrani sono particolarmente affezionati, sia per l’originalità del procedimento di cottura, sia per l’apparato di comitiva che si crea attorno a tale occasione.   Altrimenti, quando la Pasqua non è sufficientemente alta e i carciofi non sono ancora pronti, la prima occasione per la carciofolata è senz’altro la Festa del 1° maggio: gli stazzi si popolano di residenti e di esuberanti schiere di amici invitati, e dalla città si possono vedere nel primo pomeriggio, levarsi qua e là dalla campagna, centinaia di colonne di fumo, a indicare la preparazione in corso di questa gustosa e tradizionale vivanda, sulla quale vale la pena spendere qualche parola.

   Per carciofolata si intende la cottura dei carciofi (‘e carciòfola) alla brace e, per estensione, tutto il rito e il concorso di operazioni ad essa connesso.  Per meglio dire, i carciofi così cotti si dicono “carciòfola a ‘a matticèlla”, intendendo per matticèlla un fascio di tralci di vite, che i contadini all’uopo raccolgono, legano e conservano gelosamente dopo la potatura della vigna.  La particolarità della brace prodotta da questi tralci è la sua finezza e la sua durata.

Fasi lunari, previsioni e poteri

  La cadenza della Pasqua, oscillando da un anno all’altro secondo la fase lunare, sposta con sé tutte le feste ad essa collegate.  Già il carnevale inizia basso o alto relativamente alla Pasqua: esso finisce col martedì grasso (vigilia del mercoledì delle Ceneri) che precede di quaranta giorni la Domenica delle Palme, e di quarantasette la Pasqua.  Quaranta giorni dopo la Pasqua cade l’Ascensione, dopo cinquanta giorni la Pentecoste, e dopo sessantadue giorni il Corpus Domini.  In questo trenino di feste s’inserisce anche quella della Santissima Trinità, che cade una settimana dopo la Pentecoste.

   Le fasi lunari sono un elemento fondamentale nella civiltà contadina, e il lunario, cioè il calendario con l’indicazione delle lune, è una guida indispensabile nella vita agreste.  Seguendo le fasi lunari i contadini programmano non solo i lavori agricoli come semine e raccolti, che si fanno con la luna mancante, ma anche potature e innesti, come pure si pianificano gli allevamenti.  Gli esperti di previsioni meteorologiche osservano i fenomeni atmosferici in relazione alla luna, mentre dalla luna c’è chi indovina – pare con un certo successo – il sesso dei nascituri.

  La luna ha indubbiamente influssi – taluni veri, altri presunti – anche sul comportamento umano.  Bastino espressioni dell’uso italiano come “lunatico; avere le lune; avere la luna di traverso”, o dialettale come “fasse piglià ‘e lune”, per non dire del licantropo, ” ‘o lópe penaro”, che viene colto dai suoi disturbi con la luna piena.  Popolarmente, tali influssi possono assumere l’aspetto di poteri magici, di incantesimi atti a immobilizzare, a fissare una condizione, un po’ come l’usuale “passà l’angelo e disse ammèn”.  Infatti, a una persona che assuma un atteggiamento poco simpatico, per esempio che atteggi una smorfia canzonatoria o strafottente, o anche che indugi nel riposo anziché lavorare, si rivolge un minaccioso avvertimento: “Si fa ‘o quarto ‘a gliuna, ci’aremani”.  Potrebbe cioè accadergli di subire un influsso lunare, e di rimanere paralizzato in quella posizione.

  Dalla moltitudine di detti popolari inerenti le fasi lunari, si può rilevare quanta importanza esse abbiano.  Già la cadenza della Pasqua viene così codificata: “Pasqua nu’ vè’, si gliuna piena de marzo nun è”, ma un altro proverbio avverte che la Pasqua bassa è di cattivo auspicio: “Pasqua marzaria, o morte o famària”, come pure una brutta stagione si prevede se c’è la luna a Natale: “Natale co’ ‘a gliuna, cento pecore nun fanno pe’ una”.   E tutti i calcoli partono da un assunto fondamentale: durando l’intero ciclo lunare più di ventisette giorni, una fase calante o crescente è pari alla loro metà.   Quindi: ” ‘A gliuna, tredici dì ‘e passa, e a quattordici ‘n ci’ariva”.

   Dall’alone che circonda la luna si indovina la prossimità della pioggia: “cerchio vicino, acqua lontana; cerchio lontano, acqua vicina”.

   Quando il maltempo s’innesca con la luna, non smette facilmente, perché “Si piove d”a gliuna marzolina, sette gliune se stracina”, ricalcando un po’ l’osservazione che si fa il 4 aprile, sapendo che “Si piove pe’ i quattro aprilanti, piove quaranta giorni sonanti” dove, in una stravolta dizione, il già stiracchiato e pretestuoso “quattro aprilanti” diventa “quattro brillanti”.   Ma l’inizio di dicembre non è da meno, se è vero che “Si piove de Santa Bibbiana, piove quaranta dì e ‘na settimana”.   Chissà se è l’osservazione più o meno empirica di una ripetizione di coincidenze, o semplicemente il nome del santo, a suggerire e stimolare certe rime talvolta pietose.

  Nei casi sopra esposti, il fenomeno meteorologico collegato al periodo serve a prevedere i futuri fenomeni e il loro protrarsi.  Ve n’è uno, invece, non utile a fare previsioni, ma al quale viene attribuito un potere straordinario: ” ‘o primo trono de marzo”.  Al primo tuono temporalesco che si sente rimbombare nel mese di marzo, è consigliabile gettarsi distesi a terra.  E’ un’occasione da cogliere al volo, consentendoci questa semplice operazione di essere immuni per tutto l’anno dal mal di pancia.  Secondo alcuni è invece un toccasana per il mal di testa.  Comunque, vale sempre la pena tentare.

* estrapolato dal libro ‘Le Tradizioni Velletrane’

commenta