Cultura

Editoria – L’Ultima Capanna’, di Colombo Cafarotti, nell’intervista del prof. Filippo Ferrara

copertina

Il nuovo romanzo di Colombo Cafarotti

 “L’ULTIMA CAPANNA”

copertina

copertina colomboNel periodo postbellico, nelle nostre contrade, oggi pregevoli zone residenziali, appariva una trama di capanne, nere e fumanti… In condizioni di povertà estrema, tra avversità e sofferenze quotidiane, la durissima vita di campagna, nobilitata dalla fede e dai valori della civiltà contadina. Vicende ricche di sentimento e di struggente emozione, crudi conflitti famigliari e amori soavi.

Proprio in queste settimane è uscito il nuovo  romanzo di Colombo Cafarotti: L’ULTIMA CAPANNA, forse la  sua narrazione più bella e suggestiva, ricca di sentimenti, di emozioni, delle sofferenze e della forza vitale della società contadina di un tempo. Per questo abbiamo voluto approfondirne i contenuti attraverso  un dialogo critico con l’autore, curato dal professor Filippo Ferrara, che l’ha avvicinato ed intervistato. 

È uscito da poco il suo nuovo romanzo “L’ULTIMA CAPANNA”: come dobbiamo considerarlo, un romanzo storico?

“Certamente. Ci sono molti modi di fare storia: il più comune è raccogliere e ordinare dati, date, fatti e nomi. Io preferisco farla con il vissuto della gente, con i suoi dolori, le sue speranze, le sue idealità. Io ho preso un periodo del nostro vissuto, dei personaggi e ho costruito una storia con il reale, la più idonea a rappresentare i problemi di quell’epoca. Questo non vuol dire biografia pura. Se cercherete Valentino e Valentina forse li troverete o forse non li troverete. O forse scoprirete che in quel periodo tutti i ragazzi e le ragazze erano Valentino e Valentina”.

L’ULTIMA CAPANNA” è un appassionante racconto ambientato nella società contadina con le sue varie caratteristiche, agli albori della rivoluzione industriale. Le  chiedo, forse ingenuamente: qual è stato il motivo principale che l’ha spinto ad affrontare un argomento così particolare?

“Se oggi dicessimo che fino a qualche decennio fa i contadini dei Castelli Romani vivevano ancora dentro le capanne, susciteremmo stupori e incredulità. E non soltanto per chi non è dei Castelli, ma anche per le più giovani generazioni locali, se non fosse per i più anziani i quali hanno vissuto quell’epoca, i ricordi sono ben  radicati nella loro memoria, e possono renderne testimonianza.  Dove oggi vedete quella splendida villa con porticato e giardino circostante, poco più di mezzo secolo fa c’era una capanna. Senza  televisione, senza frigo, senza luce elettrica. Con una candela o un lume a petrolio. Vi abitava una famiglia ed anche numerosa. Come vivevano in quella capanna? Ve lo racconto io”.

Questa sua nuova pubblicazione, si può dire che è una storia di miseria e sofferenza di persone che per le loro esigenze di vita possono contare solo sullo sfruttamento della terra. Quel che stupisce di più è il coraggio dei personaggi del racconto e la loro forza d’animo i quali non smettono mai di lottare contro le avversità ma non riescono a venir fuori dai loro disagi. Viene a questo punto spontaneo proporre un confronto tra la vita di allora e quella di oggi, che come sappiamo, nonostante il benessere e una gamma straordinaria di diversivi, è continuamente minacciata dalle frustrazioni e dall’alienazione. Che cosa ci può dire al riguardo?

“Lei coglie un aspetto fondamentale del racconto. A quei tempi il contadino faceva il contadino, punto e basta. Lavorava la terra, viveva dei suoi prodotti e del ricavo che faceva vendendo il raccolto, soprattutto l’uva o il vino. Stabilire il livello di vita di un contadino era facile:  bastava misurare l’appezzamento di terreno che possedeva. Con meno di un ettaro di vigna era difficile che una famiglia ce la facesse a sbarcare il lunario. Aveva una sola via d’uscita: lavorare a giornata presso chi possedeva  proprietà più grandi e non ce la faceva a coltivarle da solo. Bisogna tener conto poi che eravamo nel periodo postbellico e cioè stavamo risorgendo dalle macerie della guerra; spesso dunque gli affanni quotidiani erano una lotta per la sopravvivenza. Quanto al confronto di vita, soprattutto tra i giovani di ieri e quelli di oggi, va detto che i primi erano figli della miseria e spesso della fame. E’ evidente che le necessità  formavano ben presto i ragazzi al senso di responsabilità e a cimentarsi con le avversità della vita; i secondi sono figli del benessere,  della superalimentazione, della società dei piaceri: la loro vita sembra più facile, e sicuramente lo è, ma in realtà essi diventano vittime di nuove frustrazioni sociali, di nuove miserie, di degenerazioni devastanti come quella della tossicodipendenza, di nuove forme di criminalità, distruttive. E attenzione:  la grave crisi economica che si è improvvisamente aperta nel Paese, la disoccupazione e la disperata ricerca di un posto di lavoro, sta riavvicinando gli estremi…”.

 “L’ULTIMA CAPANNA” con le sue indimenticabili storie,  ci riporta indietro nel tempo, facendoci rivivere con emozione alcuni fatti di quella vita passata così chiusa, difficile e sempre uguale a se stessa per secoli, ma dal fascino sorprendente e che è stata nel giro di pochi decenni cancellata dalla rivoluzione industriale. Lei che ha avuto la fortuna di assistere ai profondi cambiamenti epocali, ci può parlare del suo ricordo più vivo e dire se ha ricevuto, a livello culturale, un messaggio da conservare o addirittura una qualche eredità spirituale?

“Domanda bellissima, mio maestro! L’avvento della rivoluzione industriale ha cambiato la geografia economica, aprendo porte ed orizzonti nuovi anche per i contadini e ha portato ben presto al boom economico. Ricordo ancora una delle mie prime inchieste: “Perché i giovani abbandonano la campagna?”, vedendo l’esodo dei ragazzi dalle vigne alle città in cerca di altri lavori. L’agricoltura resta sempre un’attività fondamentale della nostra economia, ma  le nuove tecnologie hanno rivoluzionato il settore, modificando  i processi di  produzione e di commercializzazione. Oggi vi sono i vitivinicoltori, Il contadino di un tempo non c’è più. È ovvio che  una volta la vita di campagna era molto sofferta, ma più serena. Il lavoro era tutto manuale, durissimo. Però l’accettazione di quella vita di sacrifici e di fatiche, sempre uguale a se stessa per secoli, come lei ha detto con parole molto belle, ha lasciato in noi una sorta di fascinazione, vicina al rimpianto,perché ci ha insegnato che soltanto ciò che conquistiamo con la sofferenza ci può dare le gioie vere. Alla base di quelle emozionanti storie vi sono i princìpi e i valori, insostituibili, della civiltà contadina, che danno ai protagonisti la forza, la fede per lottare e superare le avversità. Ecco, di quel periodo io ho imparato tutto ciò che insegna la sofferenza. Considero questo  libro un patrimonio spirituale che lascio al giudizio e in eredità a chi avrà l’amore di leggermi”.

Le pagine dedicate ad una storia d’amore tra due giovani, sono tra le più vive e coinvolgenti dell’intera narrazione. Si viene colpiti dalla profondità dei sentimenti dei due innamorati, dalla loro capacità di programmare il futuro e di sapere attendere, rimanendo fedeli alla promessa data. Che cosa penseranno secondo lei, o meglio quali  impressioni proveranno i giovani di oggi, leggendo questa storia  romantica?

“La storia d’amore di Valentino e Valentina, che io ho definito prossima al mito, contiene uno dei messaggi più forti per i giovani del nostro tempo in cui, a giudicare dall’evoluzione dei costumi e dalla fragilità dei rapporti, non si riesce più a distinguere l’amore dal sesso. L’amore che intreccia i sentimenti alle aspirazioni, alle idealità di vita, crea rapporti così solidi che né il tempo né gli ostacoli riusciranno a spezzare. Io credo che i ragazzi che leggeranno la storia di Valentino e Valentina  non sapranno resistere al fascino soave del loro amore e non potranno fare a meno di identificarsi in loro e di assumerli a modelli della propria vita”.

Nel corso della narrazione compare un capitolo che suscita molta curiosità: “E Dio creò il Velletrano”,   un’invenzione fantasiosa, arguta e divertente, un vero piatto in salsa piccante che vuole: esaltare, fustigare o provocare il Velletrano?

“No comment. Saranno i Velletrani a dirlo. Io non voglio sciupare con anticipazioni il gusto della lettura”.

Nel capitolo XXIII, l’ultimo della narrazione, si parla di tre dee, madri della grande evoluzione. Per uscire dalla suggestiva metafora, ci può dire chi sono, cioè quali forze esse rappresentano nel cambiamento inarrestabile dei costumi, delle abitudini e modi di pensare?

“Non c’è dubbio che ogni epoca propone nuove deità da adorare, ove per deità s’intendono potenze’ occulte o palesi, che influenzano la vita dell’uomo e determinano i suoi comportamenti. Nell’era moderna  queste tre forze sono: la macchina, la televisione e la droga, le vere dominatrici dell’esistenza dell’uomo, che hanno prodotto profondi mutamenti nella qualità della vita, nei costumi e nella morale. Ognuno può giudicare gli aspetti positivi e negativi di questi fenomeni. Di certo siamo nell’epoca del divismo collettivo, dell’edonismo di massa, della felicità a qualsiasi costo, anche chimica, in polvere o in compresse, dimenticando che forse vi è qualche altra ragione per la quale siamo stati creati”.

Abbiamo terminato l’analisi di questo romanzo che vi colpirà per la sua diversità e la forza espressiva dell’autore  i cui ultimi lavori hanno messo in evidenza spiccate capacità  pedagogiche. La precedente pubblicazione: NELLA NUOVA FATTORIA ia-ia-oh! , la tenera favola sugli animali, scritta per ragazzi ma molto amata dai grandi, è approdata alla seconda edizione; L’ULTIMA CAPANNA è ricco di valori, di insegnamenti e di riflessioni, soprattutto per le giovani generazioni

Prof. Filippo FERRARA

retro copertina

 Di seguito un capitolo del bellissimo libro di Colombo Cafarotti (disponibile nellle migliori librerie)

“E DIO CREO’ IL VELLETRANO”

               

Il grande Vegliardo guardò gli spazi fino ai limiti dell’universo (ma Egli vide anche oltre): osservò le stelle, le galassie, le nebulose, i buchi neri, la materia intersiderale; guardò la terra che aveva eletto per la vita, il sole per illuminarla e riscaldarla, la luna candida e gentile che le ruotava intorno. C’era tutto. Tornò a osservare la terra: c’erano le foreste, i mari, i fiumi, i laghi, le montagne, le valli, le sorgenti; c’erano tutte le qualità di alberi, da frutta, da giardino, da foresta; tutte le qualità di erbe, aromatiche, medicinali, da cucina; tutti i tipi di fiore, dai più belli ai più profumati. Licheni amebe e protozoi. Virus e batteri. C’era tutto.

Guardò nel profondo degli oceani: c’erano pesci di ogni forma e grandezza, barriere coralline, banchi di madrepora, tutti i tipi di alghe, plancton. C’era tutto. Guardò gli esseri viventi che aveva creato: animali mostruosi e feroci, animali che volano, animali che strisciano, animali che camminano. Uccelli di incantevole piumaggio, farfalle dai mille colori: aveva sbizzarrito tutta la sua fantasia e non aveva dimenticato proprio nulla.

Guardò infine l’uomo, l’essere più importante che aveva creato; potenzialmente lo aveva fatto di tutte le razze, di tutte le lingue, di tutti i colori: neri, bianchi, gialli, olivastri, con le concole al naso, col perizoma, e l’universo era completo.

Poteva essere soddisfatto, dunque. O no? No! Non era soddisfatto. Si sentiva nella situazione di chi ha compiuto tutto perfettamente eppure gli resta dentro il dubbio di aver dimenticato qualcosa.

Ma che cosa? In quel momento sentì un urlo terribile provenire dai campi lontani e vide una mano, armata di randello che si alzava e si abbatteva su di un altro uomo. Caino e Abele. Volò in quella direzione, anzi no, non fu necessario: era già lì. Davanti a Caino che ancora brandiva nell’aria il suo bastone. 

“Caino, dov’è tuo fratello Abele?” gli chiese.

“E’ andato a pascolare il gregge dietro il colle” rispose l’uomo.

“Cosa facevi con quel randello tra le mani?”

“Ah, niente!” fece Caino con un sorrisetto falso e traditore. “Stavo giocando a pisciabastoni (2)”  

“Il tuo bastone è macchiato di sangue, hai ucciso tuo fratello: perché l’hai fatto?

“Pascolava le pecore nel mio terreno!”

“E dunque?”

“Le sue pecore mangiavano l’erba del prato mio!”

Iddio lo guardò con aria di irrevocabile condanna.

“Tutto appartiene a Dio: la terra, l’erba, le pecore; ed io vi ho dato tutto affinché voi poteste vivere in prosperità e amore, non nell’odio.” Ciò detto, gli lanciò il Suo anatema: “Sii maledetto!”

Guardò poco lontano e vide dietro un cespuglio di rovi Abele con il cranio fracassato, il suo sangue che aveva intriso la polvere. Si avvicinò, riempì la mano di quella terra, e fu nel Suo laboratorio dove nei momenti di creatività foggiava animali, uomini e cose. Aprì il palmo della mano, versò un po’ d’acqua, impastò lentamente la terra, le diede forma e sembianze di un uomo, che era uscito dal suo peccato. Terminato che lo ebbe, lo guardò, gli soffiò in viso e l’uomo prese a vivere; si voltò verso il Creatore e guardandolo con sospetto, Gli disse:

“Che me si sputato?”(3)

“No, ti ho dato il soffio vivificatore.”

“Ambèh! Me credea!”(4)

“Però, che caratterino!” si disse il Padreterno. Guardò meglio la sua ultima creatura e disse: “Mi sa tanto che questa volta l’ho sbagliata!” Ci rifletté un momento, vide che non era una cosa tanto buona, mah!, ormai l’aveva fatta; scosse la testa e non ci pensò più.

Finalmente il grande Veglio appariva soddisfatto. Non mancava proprio più nulla sulla faccia della terra: aveva creato il Velletrano!

 

***

 

Nun è ‘na vota né due né tre!(5)  gridava Fernando con le mani ai fianchi e con gli occhi fiammeggianti dentro le orbite. Girava su se stesso ringhiando come un cane bastonato. Ritornò a casa, prese un rotolo di spago, una verga di legno, fissò lo spago a uno sperone di roccia che divideva la sua proprietà da quella del vicino, percorse a ritroso una settantina di metri fino al lato opposto, piantò la verga al suolo, vi tirò lo spago e guardò: sì, a sua insaputa era stato piantato un filare di fragole una trentina di centimetri oltre il filo – che rappresentava la linea di confine – e quindi nel suo terreno, come aveva intuito a colpo d’occhio. Era stato il suo vicino Osvaldo, naturalmente, l’infame che da anni le studiava tutte per spostare subdolamente il confine tra le loro vigne e appropriarsi di una fetta di terra della sua proprietà.

Ma come stavano esattamente le cose? Il problema non era certo una bega scoppiata l’altro giorno fra loro due, risaliva bensì ai loro padri, ai loro nonni da diverse generazioni. I Pacchiaroni  e i Pisciarelli possedevano le due proprietà contigue e da anni si azzuffavano senza tregua per il confine e mai erano riusciti a dirimere la questione. Fernando e Osvaldo erano i degni epigoni dei due casati, dei  Pacchiaroni il primo, dei Pisciarelli il secondo.

I Pacchiaroni sostenevano che il termine di confine tra le proprietà era costituito da un roccione a punta che emergeva sul limitare degli appezzamenti con la strada interpoderale, una sorta di termine lapideo naturale, accettato per convenzione da ambo le parti. I Pisciarelli invece affermavano che il vero termine era dato dal vigoroso pioppo che sorgeva a un metro dalla roccia e che era stato piantato allo scopo, di comune accordo, dai loro antenati.

Per quel confine avevano litigato nonni, figli e nipoti e ora era il turno di Fernando e Osvaldo, i contendenti più accaniti, forse, che mai avrebbero ceduto per quei trentacinque metri quadrati di terra. Dal lato opposto infatti il confine tra i due appezzamenti era costituito da un canaletto di scolo delle acque piovane che si era formato a causa di una depressione tra i due appezzamenti di terreno e che unificava le due presunte linee di confine, dimezzando la superficie in contestazione.

Naturalmente se le due famiglie si fossero rivolte a degli esperti agrimensori, la controversia sarebbe stata risolta una volta per tutte, ma nessuno delle due casate intendeva ricorrere a dei professionisti per il timore di perdere quella fetta di terra e più ancora per non subire lo smacco di dover cedere. Meglio continuare a litigare fra loro.

                Fernando e Osvaldo, dunque, ora per un pretesto, ora per l’altro, ma sempre calcolati per affermare quel diritto di proprietà, continuavano ad azzuffarsi sotto gli occhi di tutti: era una scena abituale ormai che faceva parte della tradizione, suscitando curiosità, pettegolezzi, e talvolta preoccupazione per ciò che poteva succedere.

                In quest’ultimo episodio, per esempio, tutti sapevano che Osvaldo aveva piantato quel filare di fragole, senza farsi vedere da nessuno, e naturalmente aspettavano la reazione di Fernando. Il quale, appunto, continuava ad agitarsi sul confine con la verga e con lo spago, prendendo misure in lungo e in largo per accertare che non si trattasse di uno sconfinamento casuale, ma del solito subdolo espediente. Appurate le intenzioni del rivale, Fernando sollevò la schiena, guardò le incolpevoli fragoline e con aria furente esclamò:

Qua ce scappa ’o muorto!(6) Fece alcuni passi, si girò nuovamente, come se le fragole non avessero capito e ripeté: Qua ce scappa ’o muorto!

                La risposta di Fernando non tardò ad arrivare. Una bella mattina, Osvaldo gironzolava tra i filari della sua vigna, senza nulla concludere, perché un contadino, anche  quando non c’è nulla da fare, si aggira nella sua vigna per accertarsi che non ci sia nulla da fare; anzi una cosa doveva farla: controllare la sua fila di fragole, ché lui ci godeva a vederle crescere. Giunto in fondo alla vigna però, strabuzzò gli occhi… ahimè, le piantine di fragole erano scomparse! Tutte. E il terreno era spianato come la superficie di un biliardo. Guardò davanti a sé e quasi stesse parlando a invisibili interlocutori, esclamò:

Qua ce scappa ’o muorto!

Naturalmente non finisce qui, anzi la vicenda è appena iniziata; finisce purtroppo lo spazio che il nostro giornale ha potuto dedicare a questo avvincente episodio del romanzo più letto del momento che sicuramente entrerà a far parte dell’aneddotica popolare.

pubblicità ultima capanna