di Maria Lanciotti
Un pensiero ameno sempre più insistente: cogli il meglio e respingi ogni aspetto spregevole che la vita e questa società ogni giorno ti propone. E uno ci prova. E ci riprova. E ancora ci riprova. E di tanto in tanto coglie qualche sprazzo di luce nel buio bituminoso che impapocchia il cervello. E lo afferra al volo come una briciola di cielo nell’inferno quotidiano. Non per tenerselo in saccoccia o metterlo in cassaforte, ma per condividerne il valore e la bellezza con chiunque sappia riconoscerli e senta il bisogno – sia pure oscuramente – di sollevarsi dalle umane miserie. Proprie e altrui.
E allora non ci resta che rispolverare il sillabario della vita e applicarsi umilmente per apprendere o riscoprire le poche basilari regole che guidano l’esistenza. Spogliandoci di ogni costruzione e supponenza, di paure e preconcetti e acquisire pian piano l’arte elementare e difficilissima del vivere.
L’arte di vivere, prima di tutto, con la dignità che compete a ogni essere vivente e primariamente all’uomo, fuori da ogni condizionamento e responsabile delle proprie azioni e omissioni. Ma anche l’arte di sopravvivere quando altre possibilità la vita non offre, fidando in tempi migliori. L’arte di vivere come sorriso che porti speranza, come pace interiore e negazione di ogni tipo di violenza e sopraffazione, come lingua madre di ogni espressione vitale. L’arte di apprezzare il bello e il buono che ogni giorno l’esistenza ci riserva, a dispetto dei marpioni di turno che ci vorrebbero depressi e accasciati. Un atto di resistenza – o disobbedienza civile a cui ogni tipo di governo sembrerebbe volerci obbligare – per un salvataggio doveroso e legittimo di quel seme di civiltà di cui ogni fioritura sta soffrendo allo spasimo e che solo può renderci accettabile – se non felice – il vivere, con tutte le sue inalienabili implicazioni.
