Attualità

‘Il Pensiero’ – Massenzio, o divismo e decadenza

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a cura del prof. Pier Luigi Starace

Quasi tutti conoscono Massenzio come il battuto da Costantino nella finalissima della torneo a sei non per una coppa, ma per la corona imperiale, sul campo di Ponte Milvio, nel 312; e per la basilica omonima, della quale fece iniziare la costruzione.

Più pochi sono quelli che hanno sentito il suo nome associato ad un circo, giacente ancor oggi fra il secondo ed il terzo miglio romano (di 1480 m., non quello inglese), sull’Appia antica.

Più pochi ancora quelli che sanno come accanto al circo Massenzio aveva fatto costruire una villa, ed edificare, scimmiottando Adriano e precorrendo Berlusconi, un mausoleo dedicato a sé ed alla propria dinastia.

Quasi nessuno, opino, sa anche che Massenzio aveva preceduto di anni Costantino nella tolleranza del culto cristiano, dunque che non era affatto il paganaccio contro il santo (effettivamente canonizzato dalla chiesa orientale, naturalmente a Bisanzio) Costantino; insomma che quella battaglia fu scatenata solamente per la corona su tutto l’impero, e che, etnicamente, fu una specie di Francia-Italia, in quanto i legionari costantiniani erano Galli. E che Massenzio era figlio d’un generale pannonico; che il territorio sul quale aveva cercato d’esercitare il mandato conferitogli dai soliti pretoriani e dal “popolo” del circo e del Colosseo, ma non dal Senato,   era limitato all’Italia ed al “granaio” egiziano.

Sarò maligno (mi rifaccio ancora ad Andreotti, e me ne dispiace) , ma mi sembra che la sua politica edificatoria abbia voluto prendere a pesci in faccia il popolo romano. Qualche lustro prima l’illirico Aureliano aveva pensato alla sicurezza di Roma e fatte edificare le mura, lui pensava agli affari suoi.”Un cittadino romano non ha il diritto alla seconda casa?” Come se il la residenza imperiale augustea del Palatino gli stesse stretta, o antipatica, ne volle un’altra, e vicinissima a Roma, mica voleva fare come il padre e il nonno che seguivano le legioni a cavallo per venti miglia al giorno, si vede che anche due miglia e mezzo di lettiga o di biga erano una fatica per lui. E per lo stesso motivo volle l’ippodromo sotto casa, anzi incorporato alla villa: come cittadino romano aveva anche lui diritto ai “circenses” senza scapicollarsi fino al Circo Massimo, quando era in ferie. E che i cittadini abitanti a Monte Sacro, o sulla Salaria, o a Trastevere si dovessero fare scarpinate da legionari per gustarsi le corse, non era un suo problema.

Il mausoleo. Qui dobbiamo fermarci su un momento preciso della biografia di Massenzio. Per motivi politici s’era sposato a 16 anni, con chi lo vedremo subito, ed aveva dato al primogenito il nome di Romolo, quasi a “lanciarlo” per un futuro di rifondatore di Roma. Questo ragazzo aveva il sangue pannonico paterno, dalla madre Massimilla quello tracio di nonno Galerio, dalla nonna Valeria quello illirico del di lei padre, Diocleziano imperatore. Quando ebbe 12 anni papà Massenzio lo creò console, a quattordici lo titolò “nobilissimus vir”, in una società in cui il “vir” doveva almeno avere 30 anni, ed il “nobilissimus” doveva essere meritato da azioni memorabili. Gli dedicò anche il circo. Ma il povero Romoletto morì a 15 anni, sembra nuotando nel Tevere.

La disgrazia se mai incrementò la sfrenatezza della “politicizzazione” del sentimento di Massenzio verso il figlio: lo fece divinizzare- forte del precedente di Adriano verso il suo favorito Antinoo- e gli diede il posto d’onore nel mausoleo privato. Quindi, passando al pubblico, cioè a niente di meno che al Foro romano, dando una buona spintonata alla memoria di Vespasiano e Tito, mutò la destinazione d’uso dell’ingresso del “tempio della pace”, fatto costruire da loro per incamerare l’enorme bottino razziato a Gerusalemme nella guerra giudaica, in quella di tempio dedicato al culto del figlio.

Tutto sotto l’egida del senato e del popolo romano, il popolo che era cresciuto per secoli sul fondamento che un cittadino non potesse rivestire una carica per più d’un anno, e mai senza un collega, e che aveva guardato al “divismo” faraonico dei diadochi di Pergamo o di Alessandria con sano disprezzo.

Ma tutto questo sfrenato “allargarsi” non gli portò bene: sui 35 anni, dopo Ponte Milvio, finì anche lui nel Tevere come il figlio, a meno che non sia stato pugnalato mentre fuggiva, d’ordine del “santo” Costantino; e tutta la sua razza scomparve dal “Gotha” imperiale.

Oggi il “divismo”, nella forma che abbiamo vista nel caso specifico, cioè di creazione dal nulla di personaggi da parte dei media, nella politica, nello sport, nello spettacolo, nell’intrattenimento, vede una continuazione ed un aggravamento rispetto a quello dell’età imperiale. E la partecipazione attiva della gente a queste operazioni mai innocenti e mai disinteressate dimostra che, come a quei tempi, essa non si rende conto che il porre sullo stesso piano, sulla base della “audience”, Maria De Filippi e papa Francesco, Paolo Bonolis e Gino Strada, un isolano dei “famosi” e la giornalista che sfida la criminalità ostiense, impedisce di distinguere il merito dal demerito, l’importante dall’insignificante, il sacrificio dall’esibizionismo, la realtà dalla finzione, il disinteresse dall’interesse, il vero dal falso. E crea una fanghiglia viscida sulla quale scivoliamo sempre più in basso, nella politica, nello sport, nello spettacolo, nell’intrattenimento.

Ma Massenzio e Romoletto hanno avuto una singolarissima rivincita postuma, almeno oggi: quando leggiamo sulle indicazioni turistiche ufficiali che attorno al terzo miglio dell’Appia Antica c’è la tomba di Romolo, e che nel foro c’è un tempio al “Divo Romolo”, pensiamo che si tratti del figlio della lupa, insomma del figlio del dio Marte e di Rea Silvia: invece no, sono del figlio di Massenzio e Massimilla!