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Monte Porzio – I Vini “naturali” della CANTINA RIBELA’, caratteristiche e processo produttivo

CANTINE E VINI DEI CASTELLI ROMANI (1) (1)

Alla scoperta delle Cantine e Vini dei Castelli Romani, un nuovo racconto enologico alla scoperta della Cantina Ribelà di Monte Porzio


di Veronica Falcone

In una manciata di minuti la dimensione intorno a noi cambia notevolmente. Il piacevole cinguettio
degli uccelli prende il posto degli urlanti clacson, starnazzanti sotto le mani di persone probabilmente troppo stanche. Intorno a me solo alberi, di quei magnifici colori che il foliage gli dona.

CANTINE E VINI DEI CASTELLI ROMANI (1) (1)

E l’affievolirsi della luce del giorno, che rende la dorata e rossastra terra autunnale un tutt’uno con i colori del tramonto. Siamo a Monte Porzio.


Sono Chiara Bianchi e Daniele Presutti a gestire questa azienda. Lei sommelier con una formazione filosofica alle spalle, lui architetto, costituiscono insieme la prima generazione della Cantina Ribelà che lavora in armonia con un Terroir tipico dei Castelli Romani, enfatizzandone la “dimensione umana” con la scelta di produrre vino in modo naturale.

16 - Chiara e Daniele


Un processo, quello della produzione “naturale”, interamente mirato a garantire l’ottenimento di un vino che sia massima espressione del territorio e dell’annata. Nel 2014, i ragazzi acquistano il primo
appezzamento di terra nella valletta che, come riportano gli archivi storici, è denominata “Pentima dei frati”. A 320 m sul livello del mare, comprende uliveto, frutteto e vitigni di età compresa tra i 30 e i 60 anni.
Tra il 2017 e il 2018, grazie ad un progetto architettonico di Daniele, verranno costruite la casa e la cantina, ed impiantato un nuovo vitigno rosso.


Ad accogliermi è Daniele. Sarà lui a guidarmi nella visita dell’azienda e dei vigneti.


Vini naturali


Nel panorama dei Castelli Romani, che offre una gradevolissima differenziazione dei prodotti, rendendo
importante il lavoro di ogni singola azienda, hanno trovato il loro posto anche i vini “naturali”. Nonostante
nel mondo si parli molto di vini “naturali”, l’approdo di questa tipologia di vino nel territorio dei Castelli è
recente. In generale, il discorso su questi vini, sembra essere complesso ed articolato, come dimostra anche
l’ultimo rapporto Eurispes sulle Agromafie: “Da oltre un decennio l’attenzione posta nei confronti del
cibo e della sicurezza alimentare hanno contribuito a diffondere un interesse e una cultura nuovi rispetto
a vivande e bevande che non ha eguali nella storia dell’umanità … tale orientamento non resta
confinato alla sfera alimentare ma si allarga all’immenso mondo delle bevande alcoliche da
sempre preferite dall’essere umano: vino e birra. Grazie a questa attenzione hanno iniziato ad
affermarsi, all’interno dei confini nazionali, e a ricevere sempre più tributi i vini biologici e le birre
artigianali”, si legge nella sezione del rapporto dedicata al boom di questi prodotti. Questo ha portato
all’insorgere di molte frodi alimentari in questo campo: “Per molti anni si è fatto spesso ricorso
all’impropria dicitura “vino naturale”, fuorviante e oggi addirittura vietata in alcuni Stati, al fine di attirare l’attenzione del consumatore verso la nuova frontiera del vino”. Per questo è necessaria una giusta
informazione, che guidi il nuovo consumatore responsabile nella scelta di questi prodotti. I vini biologici infatti, per essere definiti tali, devono rispondere ai requisiti dettati dal Regolamento n.203 del 14 marzo 2012, che completa il Regolamento (CE) n. 834 del 2007 e il Regolamento (CE) n.889 del 2008. Dopo di che, un ente certificatore constaterà la conformità alla produzione di vino biologico dell’azienda vitivinicola.
Proprio come è stato per Ribelà, che dal 2019 è in possesso della certificazione biologica.


Il vino naturale si fa in vigna

11 - 501


È il mantra che guida il lavoro dei Vignaioli “naturali”. Infatti, questo tipo di processo, spesso preclude
l’apporto di modifiche al vino in cantina, con l’aggiunta di sostanze che ne assicurino la buona riuscita. O
comunque, stando ai disciplinari, le sostanze permesse per la sofisticazione, quando si parla di vino
biologico, si riducono drasticamente. In questo contesto, il lavoro dei vignaioli in vigna sarà fondamentale, che per garantire la buona riuscita del prodotto finale, dovranno lavorare, o in certi casi, non dovranno lavorare, nel senso di non intervenire sui processi naturali che regolano la crescita dell’uva. In vigna si capisce quello di cui la pianta ha bisogno e si asseconda, garantendo una buona resa. Per quanto riguarda i trattamenti invece, si punta tutto sulla prevenzione.

“Qui usiamo molto la propoli come disinfettante naturale, che stiamo lavorando per produrre direttamente in azienda”, mi racconta Daniele. Cantina Ribelà, e più in generale i produttori di questa categoria di vignaioli, si pongono come obiettivo quello di esprimere al massimo il territorio e l’annata. Questi vini infatti, nel corso degli anni di produzione, non presenteranno mai le stesse caratteristiche. Ogni anno, saranno profondamente caratterizzati dagli eventi dell’annata, che li renderà appunto unici e mai uguali gli uni agli altri. Potrebbe presentarsi un’annata più calda o più fresca.


Il suolo potrebbe essere più o meno minerale. Il loro lavoro quindi, si concentra sulla valorizzazione dei cru
(il termine è un francesismo che sta ad indicare un singolo vigneto con le proprie caratteristiche particolari, da cui spesso prende il nome il vino prodotto con le sole uve provenienti da quel vigneto) e della loro espressione. Cantina Ribelà, lavorando su piccole masse di uva, riesce con il suo terreno a produrre 8 vini diversi, tra rossi e bianchi, tutti con differenti caratteristiche e identità.


Vigneti


Essendo la prima generazione di Ribelà e non avendo quindi una famiglia di produttori alle spalle, Chiara e
Daniele hanno studiato molto ed applicato poi il tutto nella loro azienda.


Non solo bianchi ai Castelli Romani


Grazie a questi studi, tra le altre cose, sono venuti a conoscenza di un’antica tradizione del territorio, ormai dimenticata: quella legata a un biotipo di Cesanese che si allevava nei Castelli Romani. Si tratta di una varietà di Cesanese comune, molto diversa da quella del Piglio, di Affile o di Olevano. Mi racconta Daniele: “In un libro del 1888, “il Lazio vitivinicolo”, l’autore Mancini C. dice: Il vitigno che dà il genio ai vini dei Castelli è il Cesanese, che non esitiamo a riconoscere come uno dei migliori vitigni italiani, e che osammo chiamare addirittura il nostro pinot”. Si tratta infatti di un rosso scarico dalle note mediterranee, che loro hanno deciso di chiamare con il nome destinato in origine a questo clone: “ferrigno”. Un nome chi si rifà
proprio al retrogusto ferroso, quasi ematico, abbastanza particolare che lo caratterizza e che appunto non si ritrova nelle altre tipologie di Cesanese che danno invece vita a vini di una certa importanza e corposità, in netta contrapposizione alla leggerezza e all’eleganza del Pinot citato da Mancini. “Noi stiamo puntando molto su questo Cesanese comune. Crediamo fortemente in una ripresa del rosso su questo territorio”.


I bianchi della tradizione


Fare vini “naturali” che esprimano al massino il territorio significa anche lavorare con i vitigni autoctoni.
Infatti i vitigni di bianchi presenti nell’azienda sono: Malvasia di Candia, malvasia puntinata, Trebbiano
giallo e verde, bombino e bellone
. Nonostante l’utilizzo di vitigni previsti dal disciplinare della doc, i vini bianchi di Ribelà non vi rientrano. I loro bianchi infatti, vengono fatti macerare e questo processo non
permette al vino di avere il colore giallo idoneo per essere inseriti nella doc, bensì di ottenere un giallo
dorato. Questo non è ovviamente sinonimo di bassa qualità. È invece una scelta coraggiosa che l’azienda
compie, all’insegna di quella profonda diversificazione che caratterizza i prodotti dei Castelli Romani. Pur
non rientrando nella doc o nella docg, Ribelà si occupa della produzione delle denominazioni Lazio igp e igt.

5 - Torchiatura


Rivalutare: uve a tendone

Non in maniera ormai convenzionale, in gran parte dei vigneti di questa azienda è ancora presente una
struttura a tendone, che, mi spiega Daniele, non per forza deve rimanere confinata in un contesto di bassa
qualità. Disposte in questa struttura infatti, con il clima che cambia e le annate che sono sempre più calde,
le uve danno il massimo. Il tendone, se non sfruttato per un allevamento intensivo, come era in uso fino ad
alcuni anni fa, lasciando quindi che le uve crescano naturalmente nella giusta quantità (50 – 60 quintali per
ettaro rispetto ai 350 dei periodi intensivi), porta ad un risultato di qualità. L’uva è sana, si ammala di meno,
porta a termine la fermentazione senza la necessità di intervenire in cantina. Non sfruttando il tendone in
maniera intensiva si avrà più rispetto della pianta, ma anche un maggiore equilibrio tra luce ed aria.
Nell’intensivo l’aria non passa, il sole non arriva alla pianta e la pioggia crea umidità che porta malattie.

Quando si produce questa tipologia di vino, è fondamentale assecondare lo sviluppo naturale della pianta.
Questo discorso riprende un po’ l’idea di base della produzione del vino “naturale”: “il vino non lo faccio io. “Io cerco di stare in armonia con i ritmi della natura, uno dei principi base della biodinamica”, dice Daniele.
Ribelà infatti, dal 2015 usa i preparati biodinamici di Carlo Noro, istituzione della biodinamica a livello
nazionale, la cui azienda si trova a Labico, poiché importantissimi per rivitalizzare il terreno e “coltivare la vita che in esso è presente”. Nell’azienda, questi trattamenti vengono effettuati nel centro della vallata,
proprio sotto ad uno splendido albicocco. Sono due quelli somministrati: il “500”, per la parte del suolo e il
“501” per la parte aerea. Il 500 consiste nel sotterrare corni di vacca riempiti con del letame, tenuti in
questa posizione per tutta la durata della stagione invernale. In questo modo, migliaia di famiglie di batteri passano dal letamo alla terra, donandole innumerevoli benefici.

Dalla vigna alla cantina

21 - Cantina nuova


L’uva, raccolta a mano, sarà poi portata in cantina per essere pigio-diraspata e poi torchiata. In alcuni casi
prima della torchiatura avviene la macerazione. Una volta torchiata, l’uva si riversa nelle mastelle affinché
si attivi una fermentazione naturale a tino aperto. Come si diceva nel paragrafo precedente, il vino
“naturale” si fa in vigna, cercando di non aggiungere quantità troppo elevate di sostanze che non siano uva,
anche se concesse dai disciplinari. Infatti con questo, non si deve pensare che i produttori che utilizzino
altre tipologie di processi produttivi ricorrano a queste sostanze in maniera eccessiva e sconsiderata.
L’aggiunta poco controllata di questi componenti infatti, a lungo andare, ha provocato anche l’aumento di allergie e d’intolleranze nei consumatori, dando il via a quella protesta che ha portato alla sempre più
diffusa vendita e produzione dei così detti “vini naturali”.


Fermentazione naturale

21 - Fermentazione


La fase produttiva che maggiormente differenzia la produzione di questi vini è la fermentazione,
esclusivamente spontanea, azionata dai lieviti indigeni presenti sulla buccia dell’acino o nella cantina. Una
fermentazione spontanea, può essere altamente rischiosa. È una fase estremamente delicata poiché
l’eventuale bloccarsi della fermentazione potrebbe creare differenti problemi alla riuscita del prodotto. Per questo nella maggior parte dei casi è un processo che viene costantemente monitorato, e quando
necessario corretto, dagli esperti in cantina. La fermentazione spontanea non ha una durata standard: un anno potrebbe durare sette giorni, un altro diciotto e così via. Dipende da tante variabili. La fermentazione
spontanea parte dalla sanità delle uve. Le uve devono essere sane a tal punto da non dare problemi nelle
fasi naturali di fermentazione. E questa sanità si otterrà solo da un lavoro meticoloso in vigna.
Rispetto per il territorio. Anche fuori dalla vigna
Dopo la fermentazione, il vino entra in cantina, situata sotto terra, dove viene fatto affinare in diverse
tipologie di contenitori. Nella cantina, infatti, sono presenti contenitori in acciaio, in vetroresina, un
contenitore in cemento e quattro botti, tre di castagno e una di ciliegio. Tra l’altro, tre di queste botti sono
state realizzate dall’ultimo artigiano bottaio dei castelli romani, Alfredo Sannibale di Albano, che fabbrica
botti con l’esclusivo utilizzo di legname locale. A seconda delle esigenze del vino si fanno uno o due travasi, per poi procedere all’imbottigliamento. Quella di Ribelà è una produzione che conta un massimo di 20.000 bottiglie. La quantità che secondo Chiara e Daniele è giusta per poter gestire al meglio il processo
produttivo all’interno della loro azienda. Tutta la particolare attenzione di Ribelà in termini di rispetto del territorio, espresso nella loro attività in tutte le sue possibili declinazioni, porta a fare menzione
dell’accurata ricerca che si cela dietro la scelta dei nomi dei vini, ma anche del nome stesso dell’azienda.
Infatti, “Il nome Ribelà deriva da un termine dialettale usato a Monte Porzio Catone che significa “ricoprire” – ribelare… con la terra le viti appena piantate. Il gesto di rincalzare la terra attorno alla vite con una zappa
o una vanga, è per noi un simbolo di nuovo inizio ma anche di continuo rinnovo di quella che vuole essere una grande storia vitivinicola di cui bisogna prendersi cura. Riteniamo infatti che, una bella storia e un
terroir vocato non possano far altro che produrre vini di qualità” si legge sul sito. Molto interessante anche
la spiegazione di Garbagorba, il loro Lazio rosato igp, che “letteralmente significa “piace” – garba – “alla
volpe” – gorba.

20 - Garbagorba (1)

Una storia, che alcuni viticoltori dei Castelli raccontavano, narrava di un particolare tipo di
uva bianca, che diventava rossa per un breve periodo, per poi tornare bianca. Per questo motivo era
denominata anche gabbagorba – “illude la volpe”. Ci piaceva usare questo nome per un vino rosato che
nasce da innesti di Cesanese fatti su vecchie piante di Malvasia”.

Intanto, una volta arrivati nella sala antecedente la cantina, ci ha raggiunti anche Chiara, che mi spiega: “Abbiamo cercato di trovare un legame con questo territorio che fosse il più possibile vero ed autentico. L’uso del dialetto è sicuramente una massima espressione del posto. Il linguaggio è un ottimo modo per conoscere il luogo. Un legame con il passato”.


Sviluppo del territorio

Su questo territorio, la collaborazione tra realtà produttive è crescente. Come ci ricorda Daniele, la
collaborazione ed il confronto sono sempre le carte vincenti. Attualmente, è in via di sviluppo un percorso
che unisca le varie cantine, congiungendo magari le diverse realtà con un potenziamento delle attività
enoturistiche, quali percorsi a piedi, a cavallo e in bici.

racconto enologico

NELLE PUNTATE PRECEDENTI

Cantina Villa Simone a Monte Porzio, Racconto Enologico alla scoperta del Frascati

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