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Genzano – Dario Rossi, lo street drummer di fama mondiale che crea musica con ogni oggetto

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La strada è creare un attimo che non sarebbe mai esistito”. Il musicista di Genzano da milioni di visualizzazioni su Youtube appare nel nuovo documentario “Allevi in the Jungle” disponibile su RaiPlay

di Sara Cossu

Lo studio della batteria dall’età di 10 anni, un percorso accademico musicale piuttosto tradizionale, gli studi presso la St. Louis College of Music di Roma, il diploma presso l’Accademia Nazionale “La casa del batterista”. Eppure di convenzionale e perfino dello strumento della batteria rimane ben poca traccia nel Dario Rossi di oggi. Le sue performance, che l’hanno reso famoso in tutto il mondo, prevedono difatti un arsenale composto da tubi in metallo, barattoli, pentole, piatti rotti e altre miriadi di oggetti riciclati, percossi dalle sue bacchette con assoluta maestria, a produrre
musica e ritmo dalle sonorità techno, come altrimenti sarebbe possibile riprodurre solamente in studio.

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Il suo palco? Le strade e le piazze: il video della sua prima esibizione a Piccadilly Circus a Londra nel 2011 viene condiviso a macchia d’olio su tutti i social, sancendo l’inizio del suo grande successo. Da quel punto inizia l’ascesa: Dario suona nelle maggiori capitali europee e mondiali, conquistandole: tra Amsterdam, Copenaghen, Oslo, Praga, Parigi, New York, Barcellona, Berlino (dove la sua esibizione ad Alexander Platz nel 2014 manda in tilt il traffico tedesco), e tantissime altre.

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Dario appare anche in Allevi in the jungle, nuovissima docu-serie disponibile su RaiPlay dal 24 dicembre scorso, nella quale il celebre pianista e compositore Giovanni Allevi, allontanandosi per un po’ dal suo dorato mondo accademico, scende nelle strade di diverse città italiane per documentare ed entrare in contatto col colorato universo dei buskers, gli artisti di strada. La puntata su Roma si apre proprio con Dario, che viene prima ripreso nei suoi studi di registrazione a Genzano per poi esibirsi sulla Terrazza del Pincio, accompagnato dal percussionista d’eccezione Allevi.

E conversando con lui lo spettinato pianista lo definisce un vero e proprio innovatore: una persona, cioè, capace, dopo averla assorbita profondamente, di trasferire e plasmare la tecnica e teoria canonica imparata negli anni in qualcosa di completamente nuovo, rivoluzionario ed in un certo senso “anticonvenzionale”.

Lo street drummer racconta quest’esperienza, e ritraccia il filo rosso degli avvenimenti che lo hanno portato ad essere l’artista di oggi.


Com’è stato incontrare e lavorare con Allevi?
Mi sono trovato davvero bene con lui. Mi è sembrato molto genuino e alla mano, ma anche estremamente preparato e colto. È stato bello poter parlare con una persona con cui ho scoperto di avere tanto in comune, a partire dal modo stesso di concepire la musica: è anche lui innovatore a suo modo, nel riuscire a fondere la musica classica con i ritmi di quella moderna. Mi ha fatto una domanda bellissima, che appare anche nel documentario: mi ha chiesto come mai lo avessi emozionato così tanto. È una cosa che a volte mi chiedo anche io riguardo agli artisti che mi
piacciono, soprattutto quando esulano dai puri tecnicismi: io penso che la tecnica sia necessaria, ma non debba essere totalitaria. Esiste una storia, un percorso speciale dietro il suonare, che ci porta ad essere quello che siamo: è bello riuscirlo a raccontare attraverso la musica, perché è importante sapere, oltre a dove si va, da dove si viene. Con lui sono riuscito ad esprimerlo.


E la tua storia qual è?
Non vengo da una famiglia di musicisti, ma già dall’età di 5 anni ho iniziato a sperimentare col suono. Avevo tantissime musicassette, ma più che ascoltarne la musica mi chiedevo proprio in quale venissero prodotti certi suoni. Avevo già intuito che è il suono, un universo infinito, ad essere il principio primo della musica. Suonavo con tutti gli oggetti che trovavo, e mi rendevo conto che certi rumori prodotti somigliavano a quelli usati nelle canzoni che ascoltavo. All’asilo facevo molto casino, e perciò le maestre mi mettevano sempre in castigo dietro un armadio di ferro: continuavo a suonare anche là, colpendolo. Già intorno agli 8 anni mi ero creato un set, fatto di pentole, fusti di Lego, scatole di pandoro con attaccate delle collane, tutti elementi modificati a mio piacimento. E ciò avveniva già molto prima che iniziassi a studiare la batteria. Tutto questo mi fa credere ad una qualche mia predestinazione, ad un destino, e conferma che la maggior parte del nostro presente si può facilmente rintracciare nel passato.


Che importanza ha un documentario sugli artisti di strada in questo periodo?
Una enorme importanza, soprattutto perché fatto dalla RAI. Ora come ora è fondamentale fare informazione su quello che sono l’arte e la musica, in movimento e non, campi che da un anno a questa parte sono stati non dico dimenticati ma quasi. Purtroppo, al momento non c’è la possibilità di esibirsi in presenza, si può ovviare con mezzi come il live-streaming, ma certo non è la stessa cosa.


Perché suonare in strada?
Devo molto alla strada, il più grande teatro e palcoscenico dove io abbia mai suonato. Non mi
definisco propriamente un artista di strada, o almeno non solo. L’ho fatto, continuerò a farlo e fa parte del mio percorso in maniera indelebile. Quando ho suonato la prima volta in strada, a Londra nel 2011, non c’era in me la volontà di sembrare diverso dagli altri, né di compiere un atto politico.
C’era però un disagio alle spalle: i locali, le band, e anche lo stesso strumento della batteria mi stavano stretti. La strada invece concede una libertà totale: scegliere il tuo angolo di città, l’ora, il come raccontarti ad un pubblico che però non scegli, ma ti capita. E soprattutto con gli spettatori c’è tutt’altra condivisione rispetto al suonare da un palco, che anche geograficamente è posto al di sopra di chi ascolta: ci si rende veramente conto di che impatto ha la propria arte, e si rimane coinvolti in una serie di vissuti che si mescolano. Anche quando poi mi è capitato di suonare su di un palcoscenico, l’ho fatto con la stessa attitudine. Si rimane artisti di strada sempre, è un modo di
essere.

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Nel documentario affermi “La strada è creare un attimo che altrimenti non sarebbe esistito”.
Tra gli attimi che hai creato, quali ti sono rimasti nel cuore?

Sono talmente tanti che è difficile esprimerli a parole. Uno dei miei preferiti è quando ad Amsterdam un bambino mentre suonavo mi è venuto a mettere un disegno di un cuore nella cassetta delle offerte. Oppure tra gli episodi più goliardici a Camden Town, in pieno marzo, è arrivato un signore in costume da bagno che si è messo a corrermi intorno a cerchio mentre mi esibivo. Sono un po’ una calamita di “casi umani”!

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Come ti sei dovuto adattare in quest’ultimo anno?
Ho pensato di reinventarmi nuovamente, stavolta portando tutto ciò che ho imparato dalle mie esperienze e dai miei viaggi nel mondo nel luogo da cui tutto è partito, cioè i Castelli Romani. Nel mio studio da ottobre ho ripreso a insegnare, ma non batteria classica come facevo in passato, perché non avrebbe rispecchiato chi sono oggi: mi è venuta l’idea di creare un connubio tra batteria acustica, elettronica e oggetti di riciclo. Spingo i miei allievi, per la maggior parte bambini, a sperimentare, ad andare oltre lo spartito. A loro mi presento come Dario persona, non come artista.
Parte della bellezza di questo nuovo percorso è proprio il tornare a vivere la zona dei Castelli Romani, in
gioventù vissuta poco a causa dei costanti tour, e voglio continuare a farlo. Mi sono esibito poco qui, ma appena si potrà fare di nuovo mi piacerebbe molto!

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