Attualità

Rivisitando la Ciampino del secondo dopoguerra e il suo sviluppo. L’arrivo della Ferrero nel ‘56  (Parte 2)…

Rivisitando la Ciampino del secondo dopoguerra e il suo sviluppo. L’arrivo della Ferrero nel ‘56  (Parte 2)...

ciampino antica

Piazza Trento e Trieste. Qui c’erano gli uffici e deposito merci della Ferrero Dolciaria che nel 1956 aveva aperto una filiale a Ciampino, inizialmente con quattro venditori che presto diventarono una ventina. Il mio primo lavoro come impiegata apprendista. Quindici anni, sedicimila lire al mese, contratto e messa in regola. C’era la calcolatrice elettrica, la “divisumma”, che era musica per le mie orecchie. A me, l’ultima arrivata, toccò una di quelle a manovella, rumorosa come posate sbattute dentro una gavetta,  ma anche quel suono mi piaceva. Per impratichirmi e acquistare velocità mi esercitavo fuori orario. Il signor Capoccetti, capufficio, abitava a Roma e pranzava in sede con un impiegato invalido civile che veniva da Colleferro. Si tenevano buona compagnia, intenditori di vini e grandi fumatori.

Il signor Capoccetti sognava di aprire una coltelleria a Ciampino. L’aprì, infatti, in un locale messogli a disposizione da un amico, ma chiuse dopo pochi mesi per mancanza di clientela. Allora passava ancora l’arrotino, sempre circondato di ragazzini curiosi, e le donne scendevano in strada con le loro lame d’acciaio inox di prima della guerra che duravano una vita e difficilmente se ne acquistavano di nuove. Fine di uno strano sogno, con un codazzo di debiti che il signor Capoccetti non sapeva come saldare.

La mattina durante l’intervallo era compito ‒ ambito ‒  di noi apprendisti  di andare a prendere la pizza bianca da Iachini, all’alimentari all’angolo della piazza. I soldi si raccoglievano prima, venti lire a testa, mentre il signor Capoccetti e l’impiegato di Colleferro, che la prendevano con la mozzarella, pagavano cinquanta lire.

Il sabato mattina il signor Capoccetti spediva uno di noi, a rotazione, a giocare al Lotto, alla Ricevitoria in via S. Francesco D’assisi. Diceva che aveva un sistema infallibile e che prima o poi avrebbe sbancato il botteghino; ogni tanto faceva qualche ambo che non copriva nemmeno le spese della giocata.

Dududun – dududun – dududun, il braccio tutt’uno con quello della calcolatrice a mitragliare numeri.

“Come va, piccole’?” chiedeva il signor Pietro, direttore della filiale, romano de Roma da sette generazioni.

“A tutta callara, sor Pie’” rispondevo nel mio miglior romanesco. Con i miei originari di Subiaco, nata a Roma e cresciuta a Ciampino, che era un miscuglio di dialetti, era quello il mio linguaggio spontaneo.

Le colleghe più grandi mi riprendevano spesso, specialmente sulle doppie consonanti ‒ sedia e non ssedia, terra e non tera ‒ e io provavo a migliorarmi, ma non era facile.

Conservo un buon ricordo di quel periodo e di tutti i compagni di lavoro.

Anna Maria, figlia del maresciallo Pierantonio, una mattina arrivò in ufficio con un foulard in testa annodato alla maniera di Audrey Hepburn di Vacanze romane, e quando se lo tolse si scoprì che si era quasi rapata a zero con le forbici, anticipando un taglio che sarebbe diventato presto di moda.

Pina, figlia del capostazione Anselmo Veri, veniva con la sua famiglia da San Pelino nel comune di Avezzano, in seguito al trasferimento del padre. Abitavano nell’appartamento sopra la stazione, sempre odoroso di caffè; lo tostavano e macinavano in casa e lo facevano con la napoletana. Il padre coltivava un pezzetto d’orto affianco alla casa sempre rigoglioso in ogni stagione dell’anno. Col primo stipendio Pina si comprò un impermeabile double-face rosso e blu, e un paio di scarpe rosse col tacco a spillo.

Teresa Favoccia abitava nelle case dei ferrovieri in via IV novembre, anche suo padre era impiegato alle ferrovie statali. Semplice e tranquilla faceva il suo lavoro con diligenza ma senza sprecarsi. Diceva che lei non si sarebbe mai sposata, che preferiva rimanere figlia di famiglia, ma in confidenza aveva detto a qualcuno ‒ e si era risaputo ‒ che era innamorata di un macchinista del nord, non ricambiata.

Gentile Giancamilli, come me apprendista, prosperosa e carina, con la coda di cavallo e gli occhi luccicanti dell’olio di ricino che si passava sulle ciglia per infoltirle. Le era venuto il callo dello scrittore, usava più la penna che la calcolatrice o la macchina da scrivere. Chi la macchina da scrivere la sapeva usare, poteva fare lavori extra. Io che avevo fatto le commerciali si può dire per sbaglio, certo per caso, colsi la possibilità; mi portavo a casa il lavoro, che eseguivo con una macchina da scrivere portatile presa a prestito in ufficio. Quelli erano soldi miei, la busta paga la consegnavo ancora chiusa a mia madre.

Poi c’erano i ragazzi. Alberto Mastrocinque capo magazziniere, Mario Mastrogiacomo, Silvio Volpi e Domenico Fascianelli apprendisti impiegati.

Noi ragazzi passavamo pomeriggi interi chiusi in una stanzetta, ad incollare i bolli dell’ IGE sulle fatture,  e mentre  si parlava d’amore e d’ innamoramenti il ritmo del lavoro si faceva languido, finché un’occhiataccia del signor Capoccetti, o l’urlo del signor Pietro, non ci richiamavano al dovere: “A rega’, dateve ‘na mossa! E mica sete pagati a ufo!”.

La sera dopo il lavoro andavamo al bar di Di Girolamo, accanto all’ufficio, a vedere la televisione che stava su una mensola in alto, all’angolo, ad uso e consumo dei clienti abituali. Seguivamo un programma di canzoni che durava un quarto d’ora in cui si potevano vedere di persona i cantanti di cui conoscevamo soltanto la voce ascoltata per radio ‒ e spesso si rivelavano una delusione rispetto all’idea che di loro ci eravamo fatta ‒ e cantanti nuovi nati con la televisione, decisamente più belli e disinvolti. Al signor Pietro piaceva Jula De Palma, la trovava sexy.

Solo Gentile aveva la televisione in casa e un giorno ci portò a vederla e l’accese sotto i nostri occhi; in ufficio ci raccontava quello che aveva visto la sera avanti, e così seguivamo anche noi gli sceneggiati a puntate.

Un giovedì pomeriggio il signor Pietro disse: “Vi porto tutti al mare.” Ci caricò in parte sul suo millecento e gli altri andarono con Chiarelli, aiuto magazziniere, col furgone della Ditta a strisce crema e nocciola. Ci raccontava, il signor Pietro, che il fondatore Pietro Ferrero, di cui c’era una bella foto appesa in ufficio,  aveva iniziato l’attività rimestando cacao, nocciole e ingredienti vari in un grosso paiolo di rame nella cucina di casa, inventando le ricette e collaudandole con l’assaggio di tutta la famiglia.

Insomma, andammo al mare. Le dune di Castelporziano erano d’oro e il mare di smeraldo. Era l’inizio dell’estate. Io vestivo alla marinara, un abitino di cotone a strisce bianche e blu comprato alle bancarelle di Piazza Vittorio, il mio primo capo di vestiario confezionato in serie e non cucito su misura dalle sartine. Gentile portava un vestitino scollato, che faceva intravedere il seno florido cosparso di lentiggini. Una voglia di lenticchie, spiegò; la madre le aveva desiderate in gravidanza e si era involontariamente passata una mano sul petto invece che sul sedere, come voleva la regola numero uno delle donne incinte in caso di voglie.

Alberto quel giorno fece la parte del leone. Affermava di essere parente stretto del regista Camillo Mastrocinque e ne dette la prova: con perizia si muoveva sulla scena di questo mare brividoso con le onde pigre che si stendevano sospinte dalla brezza, così bassa era l’acqua che si poteva camminare per un lungo tratto senza peso e direzione. “Qualche cosa galleggia sull’acqua…” e Alberto con l’occhio esperto di consumato regista coglieva dettagli attraverso l’obiettivo della sua macchinetta fotografica, e girando quatto quatto ci immortalava tutti, ma il soggetto preferito era Gentile, e più precisamente il petto di Gentile, che fingeva di schermirsi stringendosi addosso il vestitino bagnato.

Il mare era pieno di cielo e di canzoni, ma il sole calava inesorabile e ripartimmo al tramonto.

“Grazie, signor Pie’.”

“Prego, ma domani se lavora er doppio!”.

Continua…

Ciampino Alimentari Iachini
Pietro Ferrero
Vestivamo alla marinara_ ciampino

 

Tratto in versione rivisitata e ridotta da L’erba sotto l’asfalto ‒ Storie dalla piana dei Castelli dal ’55 al ‘75, Edizioni Controluce 2007

Foto dall’archivio di Anni Nuovi e dall’archivio di Maria Lanciotti

 

Più informazioni
leggi anche
ciampino storica
Attualità
Ciampino, il paese dove non c’erano i vecchi: ripartire dal “Colosseo” (Parte 1)
Ciampino Anni 50 (foto archivio Maria Lanciotti)
Attualità
Ciampino e ciampinesi negli anni della grande trasformazione (Parte 3) – Quando le ragazze degli anni Cinquanta progettavano il loro futuro
ciampino storica
Attualità
Ciampino, forze giovani giunte per afferrare l’opportunità di una vita migliore… (parte 4)
commenta