Ambiente

Da Genzano tante riflessioni con l’evento Pianeta Discarica, di Giardino Popolare: “Per salvare i territori serve un modello di sviluppo sostenibile, equo e popolare” fotogallery

Pianeta Discarica

Nei giorni scorsi, presso la sede dell’associazione Il Giardino Popolare, sita in via Belardi 48, a Genzano, si è tenuta l’assemblea pubblica “PIANETA DISCARICA: RESISTENZE LOCALI NEI MOVIMENTI GLOBALI CONTRO LO SFRUTTAMENTO CAPITALISTA”.

Durante l’incontro, gli attivisti di diversi collettivi ecologisti di Roma e dei Castelli si sono alternati al microfono per fare il punto sui conflitti ambientali territoriali e internazionali e proporre un modello alternativo e sostenibile per la gestione dei rifiuti e delle risorse, che non aggravi le disuguaglianze sociali ed economiche già esistenti. Il dibattito, aperto con i contributi da remoto di due ospiti d’eccezione come Giuseppe Ungherese (campainer di Greenpeace) e Riccardo Mastini, ricercatore di Ecologia Politica presso l’università di Barcellona, che hanno illustrato il problema della crisi ambientale da una prospettiva macroscopica e globale, è stato moderato e introdotto da Doris Ercolani (NUDM Castelli Romani).

A seguire, Simona Biffignandi (Giardino Popolare) ha ricostruito la storia della nascita dell’associazione e delle battaglie contro la discarica di Roncigliano e contro l’inceneritore, quest’ultima vinta. Poi, sono intervenuti Riccardo Carrera (Rete Ecosistemica Romana), Simona Cravini (Coordinamento Romano Acqua Pubblica), Midori Yajima (Climate Hub Roma), Sara Pernaci (Animal Save Movement Roma), Roberto Eufemia (Genazzano in Comune), una attivista di Colleferro, Giulia (Ecologia Politica Romana), Enrico del Vescovo (Associazione Italia Nostra) Loredana Longo e Andrea Silvestri, due membri del coordinamento contro l’inceneritore e contro la discarica di Roncigliano, e infine Giulio Castellacci, libero ambientalista.

Nell’introdurre il dibattito, Doris Ercolani (NUDM Castelli Romani) ne ha chiarito l’obiettivo principale: mettere in luce come la lotta territoriale contro la discarica di Roncigliano che gli attivisti e le attiviste genzanesi stanno portando avanti da anni “si inserisce di una battaglia più generale per la difesa dell’ambiente”. Infatti, “l’unica soluzione alla crisi ecologica è un cambiamento radicale del rapporto tra l’uomo e la natura, dunque la fine del capitalismo”.

A chiarire in che modo il sistema economico capitalista sia responsabile dell’inquinamento e del depauperamento delle risorse del nostro pianeta ci ha pensato Giuseppe Ungherese (campainer di Greenpeace). Il quale, con l’ausilio di una presentazione grafica, ha mostrato le conseguenze disastrose dell’utilizzo inappropriato e spropositato di un “materiale durevole con tempi di degradazione estremamente lunghi” e “composto al 99% da combustibili fossili” come la plastica. La quale, a partire dalla seconda metà del Novecento, è stata impiegata per produrre oggetti monouso e imballaggi dei quali l’industria non può più fare a meno perché le alternative sono poche e costose.

Neppure il riciclo sembra essere una soluzione efficace al problema della sovrapproduzione di plastica, per una serie di ragioni sviscerate dall’attivista per l’ambiente: infatti, “solo il 9% del materiale plastico prodotto a partire dagli anni Cinquanta fino ai giorni nostri è stato correttamente riciclato” e tuttora “il sistema riesce a riciclare meno della metà della plastica correttamente differenziata”. Inoltre, “le aziende preferiscono acquistare plastica vergine in quanto più economica rispetto a quella riciclata” e il processo di riciclo spesso e volentieri “allunga di poco il ciclo di vita del prodotto ma non risolve il problema”. Per esempio, “solo meno della metà delle bottiglie di plastica viene effettivamente riciclata” e gli oggetti in plastica riciclata “sono di qualità inferiore” rispetto al materiale di partenza e “raramente vengono riciclati dopo l’uso”. Nei termini di Ungherese, il singolo consumatore, “costretto a comprare prodotti imballati in plastica e a pagare anche le tasse sui rifiuti che produce”, ha un margine di azione e di scelta limitato. Le responsabilità sono da ricercare altrove, in capo alle grandi aziende che “smettono di essere responsabili della plastica che producono nel momento in cui i prodotti vengono immessi sul mercato”, scaricando tutti gli oneri sull’utente finale.

A questo sistema già ingiusto e sbilanciato di per sé si aggiunge un altro problema, quello dell’esportazione illegale dei rifiuti oltreoceano. Secondo i dati raccolti da Greenpeace, un’enorme quantità di rifiuti prodotti all’interno degli Stati occidentali viene sversata abusivamente e con sprezzo dei diritti umani nei Paesi del Sud del mondo. Ma la beffa più grande è che “i rifiuti esportati illegalmente vengono considerati correttamente riciclati dal sistema”, che ignora o finge di non vedere queste dinamiche criminali.

A fronte di un panorama dominato dagli interessi particolari delle grandi aziende, non è sufficiente fare la raccolta differenziata ma occorre opporsi al sistema e “rifiutare la plastica” laddove possibile, prediligendo “modelli di acquisto consapevoli e zero waste” poiché “se continuiamo con questo trend di consumi avremo sempre più rifiuti da gestire e problemi ambientali”.

Anche Riccardo Mastini ha puntato il dito sulle multinazionali occidentali come principali responsabili della crisi climatica. Infatti, dati alla mano, dall’inizio della rivoluzione industriale Europa e Stati Uniti hanno prodotto rispettivamente il 25 e il 40% delle emissioni globali di gas inquinanti. In poche parole, “si sono appropriati dell’atmosfera, che è un bene comune, a discapito dei Paesi del Sud del mondo”. Una “dinamica neocolonialista” che si verifica tuttora grazie alla liberalizzazione dei mercati e alla “delocalizzazione della produzione”.

Infatti, “attraverso questa strategia, vengono nascoste circa un quarto delle emissioni globali prodotte dai paesi ricchi” poiché si attribuisce ai Paesi del Sud del mondo la responsabilità di un inquinamento generato in verità dalle multinazionali occidentali. Le quali, oltre ad approfittare della manodopera a basso costo, contaminano e devastano il territorio locale. Grazie alla globalizzazione dei mercati, dunque, gli Stati occidentali “assicurano ai propri cittadini uno stile di vita insostenibile a danno di altre popolazioni”.

Ma anche in seno ai Paesi ricchi vi è una “sperequazione di responsabilità”: infatti, “l’impronta ambientale degli ultraricchi, che sono l’1%, supera quella della metà più povera della popolazione. Inoltre, le classi agiate sono doppiamente responsabili perché, oltre a consumare molto di più, hanno il potere di influenzare le scelte di produzione. Negli ultimi anni, infatti, i capitani di industria hanno prediletto la convenienza a scapito della sostenibilità, generando altresì grandi “concentrazioni dei mezzi di produzione” che diminuiscono drammaticamente il margine di libertà del consumatore.

Le misurazioni dell’impatto ambientale non tengono conto di queste disuguaglianze e i più poveri, “che non possono permettersi di compiere scelte di consumo più ecologiche a causa della mancanza di risorse economiche e di servizi pubblici efficienti”, rischiano di vedersi addebitare “un’impronta ecologica sproporzionata rispetto alla loro ricchezza”.

Secondo il ricercatore dell’università di Barcellona, per affrontare la crisi climatica senza allargare la forbice sociale occorrono una “revisione del sistema fiscale” in un’ottica di “più alta progressività” (più sei ricco più paghi) e un “potenziamento del welfare” come “ammortizzatore per gli impatti della crisi ambientale”.

Successivamente, Simona Biffignandi (Giardino Popolare) ha ripercorso la storia dell’associazione di cui fa parte, “nata dall’unione di vari collettivi del territorio”, ed evidenziato tre problemi legati alla discarica di Roncigliano e agli altri conflitti ambientali locali: il primo di ordine democratico, il secondo di tipo economico e il terzo a carattere sanitario.

In primo luogo, le decisioni che riguardano i cittadini dei Castelli vengono prese da “qualcuno che noi non abbiamo neppure il diritto di votare” in quanto il Sindaco della Capitale, eletto solo dai romani, “comanda anche su di noi”. Secondariamente, “tutte le società che speculano sulla costruzione di inceneritori e discariche, come ad esempio l’avvocato Manlio Cerroni, proprietario dei siti di Roncigliano e Malagrotta, hanno interessi economici altissimi in questo business poiché le Regioni e i Comuni pagano enormi somme di denaro ai privati per occuparsi della gestione dei rifiuti”. Nei termini dell’attivista, essi agiscono solo in nome del profitto e “senza tener conto della salute e del benessere” degli abitanti della zona.

Nel riferirsi alla questione, Biffignandi ha sottolineato coma la battaglia contro la discarica non sia motivata da un atteggiamento NIMBY (Not In My Backyard), cioè dalla volontà di preservare solo la propria area di residenza, ma da un’opposizione trasversale a tutte le opere inquinanti: “ci dev’essere un modello diverso di gestione dei rifiuti, abbiamo visto che le modalità ci sono”. Infine, “nella zona di Roncigliano e del villaggio ardeatino c’è un’incidenza tumorale del 300% rispetto ad altri luoghi dei Castelli Romani e nell’acqua nostri pozzi è stata rilevata anche la presenza di metalli pesanti a causa della contaminazione delle falde. Questo viola il diritto alla salute previsto dalla Costituzione”.

“Tali problemi possono essere risolti solo con la presenza popolare e con un confronto serio con la nuova giunta capitolina, di cui dovremo capire le intenzioni in relazione alla scadenza del 15 gennaio, data in cui cesserà la validità dell’ordinanza con la quale la Raggi ha disposto la riapertura della discarica di Roncigliano per mettere una toppa all’emergenza rifiuti a Roma”, ha chiosato l’attivista.

Prima di passare la parola agli esponenti dei collettivi della Capitale, Doris Ercolani ha aggiunto che il loro obiettivo è “aprire una vertenza che non sia solo unilaterale, dai Castelli a Roma, ma su entrambi i fronti” in quanto “anche i cittadini romani vivono un disagio non indifferente a causa della questione dei rifiuti”.

“Non può accadere che per garantire i profitti e gli interessi di pochi la produzione dei rifiuti di una città così grande come Roma non sia gestita in modo ecologico e sensato ma venga scaricata sugli abitanti della zona dei Castelli”, ha dichiarato Riccardo Carrera (Rete Ecosistemica Romana). “Il problema dei rifiuti si sente anche in città, – ha aggiunto, – perché, soprattutto nelle periferie, l’Ama non passa o passa dopo qualche giorno e i sacchi della spazzatura lasciati in strada provocano una serie di problemi sia in termini di salute che di qualità della vita dei cittadini”.

Gli attivisti della Rete Ecosistemica Romana si sono posti l’obiettivo di “sensibilizzare i cittadini e le cittadine” e “fare pressione sui decisori politici” affinché possano “inaugurare una nuova stagione nella gestione dei rifiuti della Capitale” e dare avvio a “un piano reale di riduzione del rifiuto in città” senza scaricare il problema sui comuni limitrofi.

Nel concordare con la lettura di Mastini, Carrera ha ribadito che “una fascia circoscritta della popolazione che produce e consuma in maniera sproporzionata, distruggendo l’ambiente circostante” è la maggiore responsabile della crisi climatica. Pertanto, “occorre unire insieme le lotte territoriali, a partire da una visione sistemica, e le mobilitazioni globali contro lo strapotere delle multinazionali”. “Tutti dobbiamo sentirci responsabili di mettere l’élite economica i politica di questo Paese di fronte alle proprie responsabilità”, ha concluso l’attivista romano.

A seguire, Simona Cravini (Coordinamento Romano Acqua Pubblica) ha approfondito i punti di contatto tra la mala gestione della nettezza urbana e la privatizzazione dell’acqua, “servizi organizzati in ATO (Ambiti Territoriali Ottimali), su base provinciale, sebbene il confine provinciale non abbia alcuna relazione con le risorse naturali, con gli abitanti, con quello che dovrebbe essere un sistema equilibrato”.

A parere del Coordinamento di cui fa parte Cravini, in entrambe le questioni la Capitale è “l’elefante nella stanza”, in quanto “città estrattivista, idrovora, energivora e produttrice di rifiuti” che “assorbe come una spugna le riserve idriche della regione Lazio” e “produce il 60% dei rifiuti del Lazio”, differenziandone tuttavia “meno della metà” e spedendo la stragrande maggioranza “fuori dal raccordo”. “Se a Roma l’acqua è buonissima – ha proseguito Simona Cravini – è perché vengono prosciugate le sorgenti idriche di tutta la regione”.

“Acea, che ora vorrebbe fare affari sui rifiuti gestendo una parte del settore non ha questi grandi impianti che vorrebbero farci credere e non è affatto un modello di gestione virtuosa. Sia dal punto di vista del suo core business, perché il 40% dell’acqua drenata si perde sulle reti, che dal punto di vista economico, perché tutte le controllate di Acea sono perennemente in debito con la società madre a causa di un sistema di estrazione di profitto per cui Acea funge da banca delle sue società controllate appropriandosi dei loro ricavi e prestando loro i soldi per gli investimenti con un ricarico del 20%”, ha spiegato l’attivista romana.

A suo parere dunque, è preferibile che “Ama rimanga pubblica anche se il servizio che offre lascia molto a desiderare e va risanata” poiché “una società mista pubblico-privata come Acea, anche se apparentemente efficiente, in realtà nasconde un enorme buco di bilancio e si tiene in piedi solo grazie alle regole finanziarie delle società per azioni”. “Tuttavia, – ha aggiunto Cravini, – qualora un domani venissero a mancare le risorse, “sarebbe comunque il pubblico a doverci mettere una toppa con i soldi dei cittadini”.

“La pubblicizzazione dei servizi, – ha chiarito – è necessaria ma non sufficiente a garantirne la qualità, poiché i servizi pubblici vengono spesso gestiti come cosa privata dai gruppi politici”. Serve dunque “la partecipazione dei cittadini”. Invece, a parere dell’attivista romana, ultimamente si sta profilando una nuova spinta verso le privatizzazioni. In particolare, l’ecologista ha messo sotto accusa un articolo presente nel Ddl Concorrenza, che complicherà le procedure per mantenere pubblici o ripubblicizzare i servizi essenziali.

Posteriormente, è intervenuta Midori Yajima (Climate Hub Roma), la quale ha spiegato come il collettivo di cui fa parte è passato da un “progetto di formazione sui temi legati all’ambiente” a un gruppo di studio sul PAESC (Piano di Azione per l’Energia Sostenibile) della città di Roma. “I PAESC sono frutto dell’adesione delle singole città a un grande movimento globale che intende far fronte ai cambiamenti climatici attraverso una serie di azioni volte a decarbonizzare il territorio e promuovere le fonti di energia rinnovabile. Si tratta dunque di un piano fondamentale per il futuro della città e che attraversa diversi ambiti: trasporti, rifiuti, verde urbano e servizi al cittadino”, ha specificato l’ecologista romana. “Tuttavia, – ha aggiunto, – dopo averlo letto e studiato nella sua interezza ci siamo resi conto che si tratta di piano non sufficientemente ambizioso, poco trasparente, partecipato, equo ed integrato e non vincolante”.

Infatti, il PAESC di Roma: “ipotizza un taglio delle emissioni insufficiente vista la situazione di emergenza in cui ci troviamo che non aggiunge nulla al trend già esistente sulla decarbonizzazione del territorio; non prevede un accesso pubblico ai dati raccolti e riguarda solo le emissioni di anidride carbonica, tralasciando gli altri agenti inquinanti; è stato redatto senza consultare le associazioni locali (a differenza dei PAESC delle altre grandi città); non tiene conto della sostenibilità sociale di determinate misure né delle situazioni di marginalità già presenti sul territorio, ad esempio scaricando il costo delle singole azioni sulla TARI oppure tralasciando le periferie nell’ambito dei piani per la mobilità urbana, e infine non è un documento realmente vincolante e le singole azioni non sono state integrate all’interno degli strumenti di pianificazione territoriale”.

A parere del Climate Hub di Roma, per rendere il PAESC della Capitale realmente efficace nel contrastare gli effetti della crisi ambientale, occorre risolvere tutte queste criticità”. Yajima ha concluso il suo intervento con una citazione di Giulio Calella (Jacobin Italia), qui riportata intergralmente:

“Occorre un salto di qualità nell’elaborazione della proposta politica per tracciare in modo non astratto su quali dinamiche agire e su quali linee di frattura sperimentare i conflitti sociali urbani. Se non ci si vuole accontentare del meno peggio, di soluzioni identitari o dell’abitudine a percorrere sempre le stesse scorciatoie, vanno indagate a fondo le difficoltà e i fallimenti di questi anni. A volte intravedere le strade più lunghe se si procede cercando l’energia di conflitti e movimenti inaspettati può rivelarsi il modo per camminare più veloci o almeno per non sbagliare strada”. 

A seguire, Sara Pernaci (Animal Save Movement Roma) si è focalizzata sull’impatto ambientale dell’industria zootecnica, vale a dire dell’industria dei cibi animali: essa è infatti “una delle prime cause di emissione di gas inquinanti, di deforestazione, di incremento delle zone morte oceaniche, d’inquinamento idrico e di spreco di acqua”.

Per quanto riguarda la deforestazione, gli allevamenti intensivi sono responsabili “dell’80% della deforestazione in Amazzonia”, sia in maniera diretta che indiretta “attraverso le culture della soia da mangime”. Ciò “ha un impatto non solo sull’ambiente ma anche sulla salute delle popolazioni e sulle specie selvatiche che abitano quei territori. La deforestazione, infatti, distrugge gli habitat degli animali causando una drammatica perdita di biodiversità.

Circa l’enorme dispendio di acqua provocato dagli allevamenti intensivi, la militante antispecista ha spiegato che “per produrre 1 chilo di carne di bovino sono necessari 15.500 litri di acqua mentre per un 1 chilo di verdura ne servono solo 300. L’impatto della carne è di 50 volte superiore a quello della verdura”. “L’acqua è presente in quantità limitate sul pianeta e sappiamo quanto sia importante risparmiarla. L’insostenibilità del sistema di produzione alimentare è un problema politico che riguarda tutti noi e si ripercuote non solo sugli animali ma anche sulla nostra stessa specie”, ha ribadito in chiusura Sara Pernaci.

A seguire, Roberto Eufemia (Genazzano in Comune) ha esposto ai presenti due problemi di ordine ambientale che preoccupano i cittadini di Genazzano e Colleferro: la presenza del cementificio e il progetto di installare “decine di ettari di pannelli solari fotovoltaici che vanno a consumare ulteriore suolo”, contro il quale gli attivisti locali “stanno combattendo”.

Infine, nell’annunciare di essersi candidato per il Consiglio della Città Metropolitana con la lista che appoggia Gualitieri, ha promesso che qualora fosse eletto (ipotesi divenuta realtà con la pubblicazione dei risultati del 20 dicembre), il suo seggio “è a disposizione per la discussione collettiva”. “A Roma serve un progetto ambizioso, servono impianti compostaggio aerobico, di riciclo della plastica, della carta e del vetro in tutti i municipi di Roma”, ha chiosato il neoeletto consigliere della Città Metropolitana.

Successivamente, un’attivista di Colleferro ha preso la parola per tracciare un parallelismo tra la storia delle discariche di Colleferro e Roncigliano. Anche la prima, infatti, era stata apparentemente chiusa nel 2014, “ma nel 2018 è stata riaperta per raccogliere i rifiuti di Roma per circa un anno e mezzo”. In seguito, “una delibera ha disposto la cessazione dei conferimenti ma la discarica non è stata mai ufficialmente chiusa, in futuro potrebbe essere riattivata”. “In questi giorni, – ha aggiunto la donna – abbiamo fatto ricorso al Tar per chiedere alla regione di consegnarci con l’accesso agli atti che ci ha negato, i documenti che ne attestano la chiusura definitiva”.

“La discarica di Colleferro non verrà utilizzata per i rifiuti di Roma perché deve servire gli interessi locali della società Minerva che si appresta a realizzare quattro impianti industriali, ma il problema non è la discarica, né l’inceneritore, né il cementificio, ma una politica che ha dimenticato il rispetto dell’essere umano e del cittadino. La politica ha dimenticato che se apre Amazon e lì ci vivono delle persone bisognerebbe interpellarle a riguardo. Le amministrazioni passano, i sindaci cambiano ma noi restiamo lì a partire e a soffrire”, ha concluso la colleferrina.

A seguire, Giulia (Ecologia Politica Roma), una ricercatrice universitaria che in passato ha partecipato alle mobilitazioni No Tav in Val di Susa e attualmente abita a Roma, ha evidenziato l’importanza delle lotte territoriali, che “sono il grande motore della lotta ecologica” ma vengono spesso “lasciate sole dal potere, dal sapere universitario e dagli abitanti dalle città, come se i conflitti ambientali che avvengono nelle periferie non li riguardassero”. Invece, a parere dell’attivista torinese “la città è chiamata a dare solidarietà a questi conflitti”.

“Se in Italia la situazione ecologica è così disastrosa non è solo colpa delle destre ma anche di un certo tipo di sinistra storica, come il PCI”, ha affermato Giulia. “Si è sempre pensato che il diritto al lavoro fosse qualcosa da salvaguardare anche a scapito del diritto alla salute, e questioni come l’antispecismo o la disuguaglianza di genere sono state messe in secondo piano rispetto alla lotta sindacale. Secondo me, invece le cose devono andare insieme”, ha aggiunto l’attivista. Poi, ha concluso il suo intervento facendo riferimento a quanti posti di lavoro, “buono, decente, a tempo indeterminato”, potrebbero generare “i piani di recupero e bonifica del territorio”.

In chiusura, il microfono è rimasto aperto ai contributi del pubblico e hanno preso la parola Enrico del Vescovo (Italia Nostra), Loredana Longo e Andrea Silvestri (Coordinamento contro l’inceneritore e contro la discarica di Roncigliano) e Giulio Castellacci, libero ambientalista.

All’inizio del suo intervento, Enrico del Vescovo ha citato la disattesa convenzione di Horus, che “prescrive la trasparenza e la partecipazione delle comunità, anche locali, nelle scelte le riguardano direttamente”. “In Italia manca una vera forza politica rappresentata al livello istituzionale che sia alternativa al modello dominante”, ha dichiarato il presidente della sezione locale di Italia Nostra. “Da attivista, – ha proseguito, – la mia impressione è che con il PNRR si stia cercando di semplificare il più possibile i procedimenti di approvazione di questi progetti. Ad esempio, a Velletri il progetto di realizzazione di un impianto a biometano è stato approvato dalla conferenza dei servizi senza una VIA (Valutazione Impatto Ambientale) né una VAS (Valutazione Ambientale Strategica), poiché, essendo ritenuta un’opera di importanza collettiva, ha seguito una strada privilegiata”.

Del Vescovo ha successivamente svelato il contenuto di una controversa proposta avanzata “da qualcuno appartenente all’arco parlamentare” che “ha provato a far aumentare il contributo unificato per il ricorso al Tar mettendolo in correlazione all’entità della spesa dell’investimento” e ritirata a seguito della protesta dell’Ordine degli avvocati.

“Per cui, – ha chiarito, – se tu, piccolo comitato di quartiere, volessi impugnare il progetto di realizzazione di un mega centro commerciale che vale decine di milioni di euro, saresti costretto a pagarne svariate migliaia, e a questo punto nessuno farebbe più ricorso contro delle grandi opere che impattano sull’ambiente”. “Io che faccio parte di un’associazione ambientalista storica tremo perché se ci tolgono pure gli strumenti previsti dalla legge e costituzionali che dobbiamo fare?”, ha concluso l’attivista di Italia Nostra.

“La macchina giudiziaria non ci ha quasi mai dato risultati importanti – ha asserito Loredana Longo, – sono le decisioni politiche a monte che ci procurano danni che riguardano a 360° la nostra vita. Il 15 gennaio è prevista la scadenza di questa vergognosa ordinanza della sindaca Raggi ma purtroppo ci giungono voci da enti istituzionali che fanno pensare a un rinnovo, nonostante le promesse che la nuova giunta capitolina ci fece in campagna elettorale”.

“Oggi ci ritroviamo con 40mila tonnellate di immondizia romana per la gran parte non trattata o trattata malissimo su un sito già fortemente inquinato, come dimostrano le carte” ha aggiunto l’attivista ambientalista. “Noi non ci fermeremo e continueremo ad esercitare il controllo popolare. Da cinque mesi i nostri attivisti e le nostre attiviste presidiano la discarica per contare ogni tir che arriva e produrre documentazione video e foto. Siamo noi a tampinare le istituzioni ogni giorno ed è loro grazie al nostro lavoro e alla nostra militanza che ogni tanto si ricordano di produrre qualche dato. Andremo avanti così finché questo sito non sarà chiuso e bonificato”, ha chiosato Longo.

“Tutti i conflitti ambientali del territorio, ad esempio l’apertura ai voli commerciali dell’aeroporto di Ciampino, sono collegati al modello imposto, al sistema capitalista”, ha affermato Andrea Silvestri. “Tutte queste situazioni sono state create da una serie di realtà sistemiche che vanno avanti al di là delle giunte e dei colori politici. Se non riusciamo a prescindere da un modello individualista in base al quale ci muoviamo solo se ci aprono la discarica sotto casa e ci rapportiamo solo con ciò che avviene intorno al nostro orticello è un problema”, ha concluso.

Infine, Giulio Castellacci, alias Giuliettoman, attivista non legato ad alcun collettivo particolare, ha preso la parola per invitare tutti ad un evento, che si terrà il 9 gennaio (salvo nuove restrizioni), finalizzato ad “abbracciare realtà non militanti di stampo antifascista”, e coinvolgere le nuove generazioni nella lotta territoriale per la difesa dell’ambiente. “Ci siamo resi conto che manca l’anello di congiunzione tra i giovanissimi e la generazione di noi trentenni che ha partecipato alle battaglie ecologiste degli anni Duemila”, ha chiosato Castellacci.

Al dibattito ha fatto seguito una cena vegana e il dj set SOUND SYSTEM REGGAE CON TUNA + RADICAL UNDERGROUND OUTTA MISCELA RARA FAMILY.

a cura di Betty Mammucari

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