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“Mia madre morta sola in ospedale”, la difficile e dolorosa lettera della figlia di Annamaria Iozzi

ospedale malato

“Caro direttore, le scrivo per raccontarle una storia, la storia di una figlia che ha perso sua mamma di 69 anni senza capire il perché”. Inizia così la lettera di una figlia a pochi giorni dalla scomparsa di sua madre, che, in questo difficile periodo segnato dalla pandemia, ha affrontato la malattia e la morte in totale solitudine. Storie drammatiche, di dolore e distacco, acuite dalle misure anti Covid nei reparti degli ospedali che, ancora oggi (e ancor più con la ripresa dei contagi), spersonalizzano i ricoverati, isolandoli dai loro affetti.

“Recatasi al Pronto soccorso dell’Ospedale dei Castelli Romani (RM) il 30 novembre, dimessa con una presunta polmonite e terapia di ossigeno, tampone COVID-19 negativo.
Ricoverata di nuovo dopo qualche giorno, lasciata su una lettiga del pronto soccorso per quattro giorni, senza un cambio e soprattutto senza misure anti Covid. Diagnosi polmonite e esito tampone positivo al quarto giorno.

Trasferita all’ospedale Spallanzani di Roma, l’eccellenza secondo i media per le cure del COVID, messa in una stanza, da sola, chiusa a chiave.
Piano piano lo stato di salute è migliorato, si alzava. Le veniva lasciato il cibo fuori la porta, non è stata mai lavata, non ha mai ricevuto assistenza psicologica, chiamava gli infermieri per togliere la flebo terminata e si presentavano dopo ore.
Ha passato le festività natalizie senza ricevere un sorriso, una voce amica che potesse alleviare la sua solitudine.
La potevamo andare a trovare in giorni stabiliti con green pass e tampone, attraverso un vetro anti-sfondamento con le tendine abbassate (perché rotte) e il citofono non funzionante.
Ho sempre creduto e avuto fiducia nei medici, nella loro professionalità e impegno ma mi devo ricredere amaramente.
In dieci giorni di ricovero non abbiamo ricevuto nessuna telefonata per avere informazioni sullo stato di salute, sulle terapie intraprese.
Al decimo giorno decido di chiamare io, parlo con il primario del reparto che mi comunica che sì, mia mamma è entrata per il COVID ma dalla Tac e dall’esame istologico fatto tramite broncoscopia è stato diagnosticato un tumore al polmone.
Addolorata, impaurita, preoccupata mi faccio forza e mi metto alla ricerca di un oncologo per iniziare una terapia appena sarebbe stata dimessa.
Passa una settimana, esattamente il 31 Dicembre ricevo la chiamata dal primario che mi comunica di comprare un busto perché sono state trovate delle metastasi sulla colonna.
Aspetto per mail una ricetta che non arriverà. Il lunedì successivo mi reco in visita a mia mamma che mi dice che sta aspettando di fare una ulteriore Tac con contrasto, prevista per le 15, ricevo la ricetta e mi reco a comprare il busto (280 €), lo riporto nella portineria dell’ospedale.

Torno a casa, sento mia mamma che mi dice che sta aspettando ancora per la Tac e le dico di avvisarmi appena fatta.
La sera provo a chiamarla e non risponde. Riprovo ancora e niente, l’agitazione cresce, chiamo più volte l’infermeria per andarla a vedere e finalmente alle 9 e 26 mia mamma risponde, è in uno stato confusionale, mi dice che non si sente bene e non ha voglia di parlare. Penso che le abbiamo dato qualche calmante e che sia semplicemente
rimbambita da questo.

La mattina seguente non ricevo il suo solito sms giornaliero del buongiorno, sono spaventata.
Mi chiama il primario dicendomi che mia mamma non può rispondere perché in stato di semi-coma a causa di carenza di sodio, che avevano iniziato una terapia ed erano in attesa di un farmaco, ne approfitto per chiedere la cartella clinica di mamma in anticipo per poter consultare un oncologo dell’ospedale Gemelli per evitare di perdere ulteriore tempo, il dottore senza esitazioni mi dice: “ Speriamo di fare in tempo ad iniziare una terapia!”
Alle 14 e 30 circa, vengo richiamata dal suddetto primario che mi comunica che mia mamma si è aggravata, che ha chiesto un consulto agli oncologi e si è deciso di non fare ulteriori interventi in quanto le aspettative di vita, a causa del tumore, non avrebbero superato i sei mesi.

Non ho avuto la forza, la prontezza di inveire con un medico che di fronte ad una figlia non ha avuto il minimo tatto, un minimo di empatia, chiude la conversazione dicendomi che mi aveva chiamato per prepararmi e che mi avrebbe dato la sentenza definitiva entro massimo venti minuti. Così è stato! Venti minuti esatti.
Mia madre è andata via così, senza spiegazioni valide, come un numero, in solitudine con tanti sogni ancora da realizzare. Chiusa in un sacco, senza vestiti e senza ricevere un ultimo saluto.

Dopo due anni dal COVID nulla è cambiato, è disumano e vergognoso.
Il COVID fa paura ma fa più paura l’indifferenza, il pensiero di morire da soli in reparti di ospedali trattati come numeri e non esseri umani.
A due anni dalla pandemia ci sono stati tanti progressi in campo medico ma si continua a morire ingiustamente abbandonati al proprio destino.
Bisogna gridarlo ad alta voce affinché nessuno debba subire più questi soprusi”.

Saviana Colazza

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