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Li dialetti de li Castelli – L’uso di ‘O’ e ‘U’ nei dialetti dell’area nord-orientale dei Castelli Romani

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Li dialetti de li Castelli – Si dice lo o lu? I dialetti dell’area nord-orientale e l’uso di o e u in posizione finale

Per addentrarci nella selva dialettale dei Castelli Romani, iniziamo dalla sub-area nordorientale e quindi dai dialetti di Rocca Priora, Monte Compatri, Colonna e Frascati. Questo gruppo dialettale è al suo interno uno dei più omogenei per la presenza di numerosi tratti comuni, tra cui spicca sicuramente quella caratteristica -u finale che è il suono principe tanto di questi quanto di altri dialetti dei Castelli Romani.

Tutti noi avremo sicuramente sentito roccaprioresi, monticiani, frascatani e colonnesi usare spesso la -u finale non solo nei nomi e negli aggettivi maschili, ma anche nell’articolo maschile singolare lu (derivante dal lat. ILLUM), nei pronomi e nelle particelle pronominali, al punto che qualche osservatore poco attento dirà che la -u finale viene usata al posto della -o.

Niente di più falso. Questi dialetti, infatti, rientrano nella tipologia mediana e in quanto tali non sostituiscono la -u alla -o finale, ma mantengono esattamente la stessa distinzione tra -u e -o che vi era nella lingua latina: la -u deriva dalla -Ŭ latina, la -o dalle vocali finali latine -Ŏ e -Ō. Non sentiremo mai in questi paesi un parlante dialettale dire òmu al posto di òmo “uomo” o mèju e pèju al posto di mèjo e pèjo “meglio” e “peggio”, per il semplice fatto che tutte queste forme mantengono la -o finale etimologica del latino homo, melior e pejor; stesso discorso per i verbi, dove generalmente le prime persone singolari e plurali terminano quasi sempre in -o (io sòno – noi sonémo “suonare”, io curro – noi currémo “correre”, io védo – noi vedémo “vedere”, io sèndo – noi sendémo “sentire”, io so – noi semo “essere”). Insomma, come scrisse il grande filologo e linguista Ignazio Baldelli, nei dialetti mediani non si trova “mai -u dove -o latino”.

Una distinzione ben precisa che diventa fondamentale per la morfologia di questi dialetti, che proprio grazie all’alternanza tra -u e -o finale hanno creato un’innovazione sconosciuta all’italiano, aggiungendo un terzo genere alle tradizionali categorie morfologiche del maschile e del femminile, il neutro (dal lat. neuter, che letteralmente significa “nessuno dei due” e quindi un qualcosa che non è né maschile né femminile).

Il neutro dei dialetti mediani in linguistica viene chiamato neoneutro per distinguerlo da quello latino e il primo linguista ad accorgersi della sua presenza fu Bernardino Campanelli nel suo studio del dialetto reatino datato 1896 e intitolato Fonetica del dialetto reatino. Mentre studiava questo dialetto a partire “dalla viva voce dei parlanti”, Campanelli si rese conto che oltre all’articolo maschile lu a Rieti veniva usato con una certa regolarità anche un altro articolo: lo.

Raggruppando e analizzando tutte le parole davanti a cui si presentava lo, questo studioso si rese conto che non si trattava di un errore o di una forma italianizzata, ma di un articolo dialettale vero e proprio usato “davanti a sostantivi che indichino alcun che di individuale (che vogliono sempre lu o u), ma una qualità o un’azione o una pluralità senza limiti determinati. Richiedon quindi tale articolo i verbi o gli aggettivi sostantivati (usati cioè neutralmente), i sostantivi che si usino ad indicare una professione o carica, non una persona, e quelli che significano liquidi, cereali e cibi o altre cose in generale, che non abbiano forma determinata (uso partitivo)».

Nel parlato quotidiano, così come nei vocabolari e nei libri di poesie scritte nei dialetti di Rocca Priora, Monte Compatri, Frascati e Colonna vi sono moltissimi esempi di neoneutro e basta sfogliarli per rendersi conto che a quella regola descritta minuziosamente da Campanelli non vi è nulla da eccepire: si dice lo pa’ e non lu pa’ “il pane” quando la parola viene usata ad indicare un cibo in generale e non una quantità precisa, così come il vino è lo vìnu e il brodo lo bródu (liquidi), il riso è lo rìsu e il grano lo grànu (cereali), il bene diviene lo bene (concetto astratto), il crescere lo cresce (infinito sostantivato) e così via.

Di questi fenomeni quasi nessun parlante dialettale ha coscienza, eppure la distinzione tra -o e -u alla finale così come la categoria del neoneutro sono talmente interiorizzate da ciascuno di loro che, sentendoli parlare, si direbbe che siano delle regole ferree imparate ad una sorta di scuola di dialetto. Questi due tratti analizzati divengono una conferma del fatto che i dialetti seguono delle regole interne ben precise, strutturandosi al pari della lingua con una fonetica, una morfologia, una sintassi e un lessico che non vengono mai lasciati al caso.



Anche i dialetti lanuvino, genzanese, nemorense e roccheggiano conservano alcuni di questi tratti, avendo caratteristiche comuni (koinè dialettale): nei prossimi approfondimenti ci soffermeremo anche su questi.

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