L'angolo del dialetto

Lu tiémbu o lu témbu? – La ricchezza linguistica dei Castelli Romani e il difficile dilemma della metafonesi

Generico febbraio 2022

Torna la rubrica “Li dialetti dei Castelli Romani”, nella quale Elena Campolongo ci porta alla scoperta della straordinaria ricchezza linguistica del nostro territorio. Dopo aver esplorato le curiosità di un vero e proprio ginepraio linguistico ed aver analizzato la differenza nell’utilizzo di “lo” e “lu” nei dialetti dell’area nord-orientale, andiamo questa volta a conoscere la ricchezza linguistica dei Castelli Romani e il difficile dilemma della metafonesi.

Lu tiémbu o lu témbu? – La ricchezza linguistica dei Castelli Romani e il difficile dilemma della metafonesi

Dopo aver analizzato la distinzione tra -o e -u in posizione finale e la connessa categoria del neoneutro, ci sposteremo ora ad osservare il terzo tratto distintivo dei dialetti mediani, presente in modo diverso e discontinuo nelle parlate dei Castelli Romani: la metafonesi, che a sua volta si divide in metafonesi sabina e metafonesi a dittongazione o napoletana.

Prima di spiegare in cosa consista questo fenomeno, cerchiamo di individuarne la diffusione facendo riferimento alle sei sub-aree linguistiche in cui sono stati divisi i dialetti dei Castelli Romani: la metafonesi più antica, ovvero quella “sabina”, si ritrova nei dialetti nordorientali (Rocca Priora, Monte Compatri, Colonna, Frascati), mentre quella a dittongazione, per quanto incompiuta, resiste ancora nei cosiddetti dialetti interni, ossia quelli di Rocca di Papa e Nemi; in tutte le altre varietà non si ha che qualche sporadica attestazione di questo fenomeno ed è difficile dire se si tratti di relitti o di forme semplicemente condivise con i dialetti che possiedono la metafonesi.

In termini tecnici la metafonesi è un fenomeno assimilatorio che fa sì che le vocali finali -u ed -i di una parola (derivanti, rispettivamente, dal lat. -Ī, -ES e da -Ŭ) attraggano le vocali toniche medie, provocando una chiusura o un dittongamento: in pratica, quando a portare l’accento sono -è- aperta e – ò – aperta e la vocale finale è una -i o una -u, queste si chiudono alzandosi di grado, divenendo -é- chiusa e – ó – chiusa nel caso della metafonesi sabina (detta anche a innalzamento) o trasformandosi nei dittonghi -ié- e -uó- nella fattispecie della metafonesi a dittongazione.

È questo il motivo per cui dalle stesse basi latine, quali ad esempio tĕmpŭs “tèmpo” e ŏcŭlus “òcchio”, i dialetti nord-orientali sviluppano le forme témbu/ témbi e ócchiu/ ócchi, mentre i vicini parlanti dei dialetti interni diranno tjémbu/ tjémbi e uócchiu/ uócchi. Spostandoci da una parte all’altra dei Castelli, infatti, sentiremo gli stessi termini dialettali arricchiti con dei suoni diversi: a Rocca di Papa esistono u sorjéllu e u sgommarjéllu, dei mestoli che si usano rispettivamente per prendere l’acqua dalla conca e liquidi dalla pentola, così come nei paesi con metafonesi sabina ci sono lu soréllu e lu sgommaréllu.

Le vocali medio-basse, dunque, si comportano in modo diverso a seconda del tipo metafonetico presente in un dialetto, mentre identico dovrebbe essere il trattamento delle vocali toniche medio-alte in presenza sempre di -u e -i finali.

Quando a portare l’accento all’interno di una parola sono -é- chiusa ed -ó- chiusa, sia la metafonesi sabina che quella a dittongazione producono un innalzamento e chiudono queste vocali rispettivamente in -ì- ed -ù-. Questo meccanismo funziona perfettamente nei paesi dell’area nord-orientale a metafonesi sabina, tant’è che tutti noi avremo sentito almeno una volta un parlante usare forme come lo frìddu “il freddo”, capìllu e capìlli “capéllo/-i”, lu cellìttu “uccellétto, ovvero uccellino” e li cellìtti, li nepùti “i nipoti”, li scarpùni “gli scarponi”, li portùni “i portoni” o i tipici pronomi personali maschili issu/ issi “esso e essi” e i dimostrativi quistu/-i “questo”, quissu/-i “codesto”, quillu/-i “quello” che, se messi a confronto con i femminili essa/-e, questa/-e, quessa/-e e quella/-e, rendono immediatamente comprensibile il fenomeno dell’innalzamento metafonetico delle medio-alte.

Un innalzamento che si trova anche in tutti i dialetti che hanno la metafonesi a dittongazione, come ad esempio il napoletano, ma non in quelli della nostra area interna, dove appunto si parla di una metafonesi incompiuta. Ad eccezione di forme ad alta frequenza d’uso, come i dimostrativi chistu, chissu e chillu, nessun rocchigiano sostituisce i suoni -é- ed -ó- con i corrispettivi -ì- ed -ù- e di fatti al posto degli attesi celìittu, frìddu, capìlli e nepùti troveremo le forme con vocale tonica etimologica inalterata, ovvero celléttu, fréddu, capélli, nipóti.

Difficile dire se questa metafonesi incompiuta sia un’evoluzione di uno stadio precedente in cui era presente anche l’innalzamento delle medio-alte poi perduto o se i dialetti dell’area interna non presentassero fin dall’origine la chiusura di queste vocali toniche, ma è interessante notare che il romanesco antico esibiva la stessa fenomenologia. Gli studi sul romanesco antico, per cui resta fondamentale quello di Ernst del 1970, hanno dimostrato che a partire dalle testimonianze più antiche fino almeno al XVI sec. (cioè fino alle Stravaganze d’amore di Cristoforo Castelletti, 1585) il dialetto dell’Urbe conosceva sicuramente la dittongazione delle vocali medio-basse in presenza di un vocalismo finale derivante dal lat. -Ŭ, -Ī, mentre per l’innalzamento delle vocali toniche medio-alte le attestazioni sono poche e soprattutto discutibili.

Ancora oggi gli studiosi si dividono in due factiones contrapposte, tra chi pensa che il romanesco antico avesse una metafonesi completa poi perduta e chi invece è convinto che avesse una metafonesi “dimezzata” fin dal principio, e ciò che interessa non è certo inserirsi nel dibattito tra linguisti, ma semmai constatare che a pochi passi da Roma e a secoli di distanza i nostri dialetti interni, e in particolar modo quello di Rocca di Papa, presentano le stesse caratteristiche e gli stessi insoluti dilemmi del romanesco di prima fase.

 a cura di Elena Campolongo

 

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