Gli auguri dei Lettori di Castelli Notizie

Attualità

Alle radici del Natale che fu: tutte le usanze e le tradizioni d’un tempo per la Vigilia e il 25 Dicembre

vigilia

Il Natale sta arrivando. Se ne vede crescere l’attesa, tra le Chiese che si preparano al grande evento della nascita del Redentore, per passare dalle vetrine, ancora affollate dagli acquirenti dell’ultima ora, e finire con le mamme, sino all’ultimo indaffarate ai fornelli. 

Un Natale che porta con se le tradizioni di un passato in cui i giorni di festa celavano in se un’unicità ed una magia senza eguali. Facendoci aiutare da chi quelle tradizioni le ha riportate in un apprezzatissimo libro andiamo a scoprire come si passavano i giorni di un Natale che fu.

Con l’ausilio de ‘Le Tradizioni Velletrane’ di Roberto Zaccagnini, facciamo allora un tuffo nel passato, augurandoci vicendevolmente che sia davvero per tutti un Natale…speciale!!!

ALLE RADICI DEL NATALE

La celebrazione della Nascita del Redentore cade nel solstizio d’inverno, e fu istituita agli inizi del IV secolo dalla Chiesa d’Occidente, sostituendo una precedente festa pagana (Natalis Solis invicti) dedicata alla nascita del dio Sole.

Un tempo, molto più di oggi, l’atmosfera natalizia si avvertiva già molti giorni prima nei tranquilli preparativi delle persone, mentre i segnali più moderni della festa sono dati dal frenetico allestimento delle vetrine dei negozi.   Nella Roma dell’800, già dall’ 8 dicembre, per l’Immacolata Concezione, cominciavano a scendere i biferari abbruzzesi o ciociari, i suonatori di zampogna che rimanevano fino a 15 giorni dopo Natale.  Ciò, fino al novembre 1870 quando, con la proclamazione di Roma capitale, si proibì a costoro di suonare nelle strade.  Sulla figura degli zampognari scrissero molti viaggiatori dell’epoca: uno dei più acidi fu Stendhal che, nel 1827, li considerava “gente capace di far odiare la musica”.  Non sappiamo se qualcuno osò mai replicare, ma se possiamo esprimere un’opinione a due secoli di distanza, possiamo ribattere che nessuno pretese mai di offrire, con la zampogna, buona musica.  Chiamiamoli pure “rumori”, ma trattasi pur sempre di rumori distintivi di una situazione, di una circostanza, la quale o si sente intimamente in comunione con lo spirito del luogo, oppure non ha alcun bisogno della presenza di certi spocchiosi visitatori per continuare ad esistere.  E infatti, il Natale ancora esiste, e gli zampognari pure.  Punto. 

Il presepe

   La rappresentazione della scena della Natività era eseguita dalla Chiesa fin dal medioevo, inizialmente in forma semplice, poi sempre più articolata e corredata di riferimenti teologici, esattamente come si faceva con la rappresentazione della Passione di Cristo.  Ma il primo presepe fu, secondo la tradizione, quello composto da San Francesco a Greccio, e che in seguito divenne tradizionale trovando maestri soprattutto nelle regioni centromeridionali.  Nel ‘500 si diffuse l’usanza di costruire il presepe in tutte le chiese, e più tardi nelle abitazioni private. 

L’usanza ebbe tanto consenso nel sentimento popolare, che presto si delinearono diversi stili, secondo la tradizione estetica di ogni regione.  A composizioni prospettiche di paesaggi, dove in poco spazio si rappresentano ampie vedute, corrispondono invece avviluppate costruzioni gremite di personaggi in un affastellamento di ambienti, ancora oggi tipici della tradizione napoletana.  Possiamo arguire che tale caratteristica, che porta a sviluppare il presepe verticalmente anziché orizzontalmente, nasca dalla poca disponibilità di spazio delle case più umili, contro i presepi costruiti in quelle case dove, all’uopo, era riservata un’apposita stanza.

All’inizio dell’800, le famiglie nobili esibivano statuine di noti artisti, oppure acquistate in negozi che vantavano pezzi d’un certo pregio.  Poi anche la gente comune cominciò a costruire in casa il presepe, accontentandosi però di pezzi comunque artigianali, di terracotta o di gesso, i quali erano di comune uso fin oltre la metà del ‘900.  In questi anni, le vetrine dei negozi esponevano i personaggi della Natività e del contorno, perfettamente allineati e coperti come in un esercito: una intera fila di Madonne, una di San Giuseppe, il Bambinello col bue e l’asino, i tre Re Magi, e la varietà di pecore che solitamente si risolveva in tre modelli: quella coricata, quella in piedi con la testa eretta, e quella in piedi brucante.  Per finire, l’assortimento dei pastori, tra i quali non mancava quello contemplante, poggiato al lungo bastone munito di lanterna, quello con l’agnello in spalla, e quello dormiente.  E poi gli accessori: casette grosse quanto la montagna fatta con carta sgualcita, ponticelli d’attraversamento per rivoli di carta stagnola, la cometa e l’angelo da fissare sulla capanna.

Già dal giorno dell’Immacolata, per consuetudine, si tirava fuori la scatola contenente il materiale del presepe, mentre i ragazzini andavano scovando, nei luoghi umidi fuori di casa, qualche brandello di muschio, la “vellutina” per tappezzare qualche tratto del paesaggio, o per mascherare la basetta delle statuine. 

A rotazione, ogni tanto qualche statuina andava sostituita, caduta e danneggiata proprio a causa della loro instabilità sul tappeto di muschio.  I personaggi della Natività godevano di una certa incolumità, sia per la loro collocazione nella capanna, sia perché solitamente più lontani dalle grinfie dei bambini, ma soprattutto perché strutturalmente più stabili: la Madonna e San Giuseppe inginocchiati, il bue e l’asino coricati, il Bambinello disteso nella mangiatoia.  Più a rischio erano i pastori, eretti su terreni sconnessi, sempre col naso rotto, con le braccia più volte rincollate, poi sciancati, tenuti in piedi a ridosso di una montagna, poi facenti funzione di dormienti per la perdita di ambedue gli arti.  Molti commercianti non vendevano separatamente i Re Magi per evitare di trovarsi, a fine stagione, coi terzetti scompaginati: infatti nessuno acquistava il negro perché, stante inginocchiato, non si rompeva come gli altri due.  Quello eretto con mani giunte si vendicchiava bene, mentre il più richiesto era quello eretto con le braccia allargate, il più sbaricentrato dei tre.  Né si potevano trasferire, i Re Magi, alla funzione di sciancati dormienti.   Tra gli altri personaggi del presepio, emergeva la figura della “Marónca”: così era detta popolarmente, da noi, la donna recante in testa un cesto di frutta.   Tra la corte dei miracoli che fa da contorno alla Natività, si cominciò a ideare tutta una schiera di mestieranti, che andò moltiplicando le proprie arti con l’invenzione della plastica, la quale permise la creazione di statuine meno monolitiche di quanto si fosse obbligati a fare con quelle di gesso.  Allora, intorno alla capanna convennero i personaggi più singolari per una simile occasione: saputo che quella notte, in quel luogo, era nato un bambino, lì confluirono tutti gli artigiani, ognuno trascinando fuori della sua bottega gli strumenti di lavoro.  Arrivarono falegnami intenti al taglio di palanche, spaccalegna arrovellati su di un ciocco, fabbri ferrai scatenati col martello sull’incudine…: immaginiamo quanto rilassante potrebbe essere la colonna sonora di un siffatto presepio, dove suona ironico il canto: “In notte placida per muto sentier …”.    Le vecchiette uscirono di casa con la rocca e il fuso, per andare a filare in quel prato antistante la capanna, mentre l’oste del vicino locale vi allargò qualche altro tavolo, lucrando su quella speciale occasione che vedeva grande afflusso di gente.  Un presepio tipico delle nostre contrade, ospiterebbe bene un porchettaro ambulante, mentre più a sud ci si vedrebbe un banchetto col gioco delle tre carte: carta vince e carta perde.  Ma intanto, l’invenzione della plastica andava stroncando definitivamente il commercio di statuine, ormai indistruttibili.

L’albero e Babbo Natale

Nella seconda metà del ‘900 si diffuse anche in Italia l’usanza nordica dell’albero di Natale, che ben presto insidiò la secolare tradizione del presepe.

Si potrebbe teorizzare all’infinito sulle ragioni di questa improvvisa tendenza ma, lasciando il resto agli antropologi, crediamo di non sbagliare se riassumiamo tutto nelle utilitaristiche preferenze della vita moderna: l’albero si monta e si disfa più in fretta, è colorato, fa luce, occupa meno spazio, sporca di meno (specialmente quando è artificiale).   E come di plastica diventarono le statuine del presepe, così di plastica si fecero i puntali e le palle dell’albero, inizialmente di sottilissimo vetro finemente decorato, e quindi annualmente soggetti a sterminio.

Ma insieme all’albero, comparve un grosso personaggio che subito conquistò il favore popolare, andando ad occupare quel posto di personificatore del Natale che, nella tradizione popolare, in effetti mancava.   Babbo Natale nasce nel nord Europa, ma in realtà passa per l’America.  E non poteva essere altrimenti, se oggi non solo è entrato in ogni casa, ma soprattutto nelle vetrine di tutti i negozi del mondo.  L’origine di questo grande affare è San Nicola, vescovo di Mira, vissuto nel IV secolo e conosciuto pure come San Nicola di Bari.  Uno dei santi più venerati, è celebrato nell’Europa settentrionale come Santa Claus, nomignolo olandese di Nicola.  Patrono, tra l’altro, dei bambini, il giorno della sua festa (6 dicembre) era usanza regalare doni ai fanciulli.  Quindi, oltre a tutte le credenze e le leggende che fiorirono sulla sua vita quasi sconosciuta, e a tutte le usanze popolari ben poco connesse col culto religioso, la sua figura principale fu quella del donatore di giocattoli.  Esportato il suo culto in America, perdette mitra e pastorale, divenne obeso, si vestì della casacca rossa che oggi lo distingue, e fu battezzato Babbo Natale.  Fu la sua fortuna.  Imponendosi subito in tutto il mondo come elargitore di regali, da noi trovò una forte resistenza nella italianissima Befana, che a lungo sostenne un fiero testa a testa.  Ma sospesa per un lustro la festività della Befana, negli anni ’70 del XX secolo, quella distrazione fu fatale alla vegliarda.  Nella descrizione tradizionale, Babbo Natale viaggia su una slitta volante tirata dalle renne e, come la sua compagna antagonista che viaggia su una scopa volante, entra nelle case passando per la cappa del camino.

 

Il ciocco

La giornata della vigilia di Natale trascorre nell’ansia preparatoria della sera.   Un tempo, già nei giorni precedenti, si poteva osservare il viavai di carretti recanti “cupelle” di vino per quei giorni di festa, o ciocchi di legna da ardere per le lunghe serate da trascorrere in famiglia.  E infatti, tradizione nostra ma comune a molte regioni è l’accensione di un grosso ciocco nel camino, alla sera della vigilia.   Ecco che, come abbiamo già notato parlando della Befana, anche qui si ripropone il camino come area sacra dell’abitazione, secondo le più diffuse e più antiche tradizioni e credenze.

 Il ciocco, se di dimensioni adeguate e di buon legno, e con un tiraggio non eccessivo della cappa, non deve divampare ma bruciare lentamente per durare almeno tutta la notte, e c’era chi riusciva a tenerlo accesso fino a capodanno.  Il fuoco del ciocco serve a scaldare il Bambinello, ma porta con sé tutta la simbologia millenaria a partire dalla festa pagana della nascita del Sole, sulla quale nacque la nostra celebrazione della Natività di Gesù.  V’è il valore profilattico, vitale e propiziatorio del fuoco, e il consumarsi del ciocco che simboleggia l’esaurirsi dell’anno vecchio, la distruzione del male accumulato, il passaggio di stagione col solstizio d’inverno.  Ma la convinzione sostanziale è quella dichiarata di voler scaldare il Bambinello che sta per nascere, e alcune filastrocche da recitare per l’occasione rappresentano San Giuseppe che accosta alla fiamma i panni coi quali coprirà Gesù.

In altre regioni, i resti del ciocco bruciato vengono devotamente conservati e utilizzati per varie occorrenze, come nel teramano dove, prima dell’alba di capodanno, si portano in campagna e si riaccendono per tenere lontani serpi e topi.

 La cena della Vigilia 

La cena della vigilia era, ovviamente, di magro.  Le varietà di pesce in tavola, specialmente nei tempi antichi, dipendevano dalla condizione sociale della famiglia.  A Velletri erano tradizionali gli spaghetti al tonno, o anche alle acciughe, e il baccalà in umido con uva passa.  Seguivano grosse padellate di frittelle d’ogni genere, da quelle tradizionali di broccoli a quelle di baccalà, da quelle di zucca a quelle di mele.   Molto comuni erano le frittelle fatte con la radice di  pastinaca.   

Per dolce, comparivano finalmente in tavola le ciambelle e i biscottini preparati nei giorni precedenti, e dei quali abbiamo già riferito parlando del Capodanno.  E’ da notare che questi dolci, dovendosi consumare anche nel giorno di vigilia, in ottemperanza ai precetti sono rigorosamente di magro, cioè non contengono uova, al contrario di quelli confezionati a Pasqua.  Abbondano invece di miele, dolcificante già largamente usato dagli antichi Romani, che usavano farne dono per la fine dell’anno, proprio come simbolo e augurio di abbondanza e dolcezza. Dolci tipici delle feste natalizie erano pure i  mostacciòli, specie di biscottini preparati in formine di legno dalla sagoma romboidale, spesso intagliate con figure floreali.  

Mostacciòli: Impastare farina, mosto cotto e pepe, fino a farne una pasta di media durezza.  Stenderla e tagliarla con lo stampo, quindi infornare fino a doratura. 

Oltre al torrone, che oggi si trova in commercio confezionato con diversi ingredienti, un tempo si mangiava il pangiallo (‘o pangiale), dolcissimo impasto di miele e frutta secca (fichi, uvetta, prugne, ecc.), oggi sostituito dal panettone di origine milanese, e dal pandoro.   La scelta di alcuni ingredienti per confezionare i dolci, anche i più moderni, deriva spesso da antiche superstizioni, per il significato, il simbolismo o il potere che ad essi si attribuiva, specialmente nelle occasioni più magiche come la notte di Natale o di Capodanno.

Al momento di iniziare la cena, i genitori trovavano sotto il tovagliolo una busta contenente la “letterina di Natale”, che i bambini avevano preparato solitamente sotto la guida della maestra.  Sia quelle acquistate in cartoleria, che quelle fatte fare dai bambini, erano costituite da due fogli a righe, grandi come un quaderno, e sulla prima facciata v’era una scena della Natività decorata con porporina d’oro o argento.  I genitori si disponevano quindi alla lettura, simulando ogni volta sorpresa e curiosità per un evento che invece avevano atteso e sperato.  Ciò, esattamente come fa il ragazzino quando riceve doni dalla Befana, alla quale in realtà non crede più da un pezzo.  Nella letterina, agli auguri per quella santa notte, si ripete la stessa invariabile formula: “…vi prometto di essere buono”.  Quindi il bambino viene posto in piedi sul tavolo o una sedia, e tra mille insistenze dei familiari recita la poesia di Natale, un tempo detta “sermone”, fatta imparare a scuola nei giorni precedenti.  A ricompensa, il fanciullo riceve la mancetta, e un tempo questa operazione rappresentava un rito solenne.  Nelle famiglie patriarcali, l’elargizione della mancia da parte del padre, con l’austerità del gesto, conferiva gran valore agli spiccioli concessi.  Il bambino baciava la mano del padre, dicendo: “Grazie, padre!  E, ben’e mmeglio, a ‘n atr’anno!”.   In tempi più recenti, sminuita la figura del padre che deteneva l’esclusiva dell’elargizione, le mance cominciarono a raccogliersi anche da altri familiari adulti presenti.  Spesso le madri cucivano una sacchetta di stoffa che appendevano al collo dei bambini, per dar modo a loro di raccogliere e conservare le monete ricevute.  Oggi si è perduta ogni forma rituale, restando soltanto la pretesa del fanciullo, che arraffa mance da genitori, nonni, zii, e parenti.

La notte della Vigilia

Quindi si tirava tardi in attesa della mezzanotte, davanti al camino dove il ciocco andava consumandosi.  L’idea del ciocco è talmente associata al Natale che, per sottolineare una situazione assurda, contraddittoria, si usa dire: “Natale co ‘o sole, e Pasqua co’ ‘o tizzone”.  E ciò può alludere, esplicitamente, anche alle bizzarre condizioni meteorologiche.   Ma in condizioni normali di stagione, è ovvio che a dicembre faccia freddo, e che si cerchi conforto dinanzi al fuoco il quale, però, scalda solo davanti.  Da qui, un’amara constatazione: “Dicembre: denanzi me scallo, e derèto me ‘ngègne”, che può essere variamente applicata a molti casi della vita.

L’occasione di trovarsi tutti insieme, e di dover passare il tempo, dava modo di avventurarsi in lunghi racconti che, in altre circostanze, sarebbe stato impossibile portare a termine.  Per tale ragione, di una lunga storia si dice che, per raccontarla “ce vorìa ‘a notte de Natale”.   I più anziani riproponevano storie della vita militare o, in tempi più recenti, dello sfollamento durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale.  Oppure cercavano di arginare il sonno dei bambini raccontando loro le “fraolétte”, storielle molto, ma molto liberamente tratte dai racconti evangelici.

Intanto tutte le chiese si affollano per la Messa di mezzanotte, dove i fedeli vanno – come si dice – “a veder nascere il Bambinello”.

A Velletri nei tempi antichi, era consentito che nella notte di Natale restasse aperta la cattedrale, come pure la chiesa di San Francesco nella notte della vigilia di Sant’Antonio da Padova, e Santa Lucia per la stessa santa.  Già nel ‘500, stabilendosi che nessuna persona potesse sostare di sera in chiesa dopo la funzione, si ammettevano queste tre eccezioni, consentendosi una veglia di preghiera.  All’epoca, di norma, c’era il divieto di tenere aperti i locali o sostare in strada oltre le due di notte, a meno che non si portasse una lanterna accesa.  A quell’ora suonava la campana maggiore del palazzo municipale, e quel suono era detto “sgherrana” ; quindi iniziava la ronda dei birri che vigilavano sulla quiete pubblica, dopo che i cittadini già a letto erano stati svegliati dalla campana che suonava per un quarto d’ora.  Tale usanza ebbe fine nel 1831.

Nel ‘600 il giorno di Natale, nella chiesa del Ss.mo Salvatore, si mostravano al popolo le reliquie dei Santi Pietro e Paolo, di Santo Stefano protomartire, e di altri santi.

Legate a una notte così magica, non potevano mancare credenze popolari.   Secondo la nostra superstizione, i bambini nati nella notte di Natale “patìsceno de male caduto”, cioè soffrono di epilessia.  Secondo altri, “patìsceno de lópe penàro” (lupo mannaro), cioè soffrono di licantropia.  Essendo entrambe le malattie ritenute un tempo misteriose, è chiara l’idea che attribuiva ai bambini nati in quella notte una specie di maledizione.  Ciò perché, essendo quella notte riservata alla celebrazione della nascita del Redentore, chiunque avesse osato nascere in quelle ore sarebbe stato negativamente segnato.

La stessa mala sorte doveva toccare a coloro che in quella notte fossero stati concepiti, pagando così per il comportamento dei genitori, tanto irriguardosi nei confronti della sacralità del momento.  Ma c’era pure chi sosteneva il contrario, e cioè che la nascita durante la notte di Natale fosse sicuramente di buon auspicio per il bambino.  

Il giorno della festa

La mattina di Natale, le strade si popolano in tarda ora, compatibilmente con il ritardo con cui ci si è coricati.  Non esistono particolari tradizioni, se non quella universale di visitare qualche parente, scambiarsi gli auguri e, magari, anche qualche regalo.

Il turbinio di regali per Natale è una consuetudine moderna, mentre un tempo i doni erano destinati solo ai familiari più stretti.   Nei luoghi di lavoro, i dipendenti potevano ricevere il pacco dono dall’azienda, o essi fare un presente al loro capo.   Segno di gratitudine per favori ricevuti, o intesi a sollecitarne, i regali ingombrano studi di professionisti o uffici di pubblici funzionari.   Ma alcuni tipi di regalo hanno, nella tradizione e nella superstizione, un loro significato, quindi per alcuni oggetti esiste il destinatario giusto o sbagliato, come pure il modo di porli, o l’occasione.  Per esempio, il vischio che ha significato augurale a Natale, per il resto dell’anno è mercanzia per uccellatori, erboristi e vinificatori.

Per il resto, ci si affretta a sedersi a tavola per gustare i  maccheroni fatti in casa.

Chi alleva il maiale, tradizionalmente lo scanna in questi giorni, purché siano giornate fredde e non nebbiose.  Si tratta, il più delle volte, del porcellino acquistato alla fiera di San Clemente dell’anno precedente.  Come è noto, del maiale si utilizza tutto.  I prosciutti compariranno subito appesi alle travi dei tinelli, ma immediatamente da utilizzare è il sangue, col quale si confeziona il “sanguinaccio”, di cui si è già riferito descrivendo il Capodanno.  Prima ancora, si può gustare la cosiddetta “scannatura de pórco”.

 “Scannatura de pórco”:  Raccolto il sangue mentre si sgozza il maiale (ma anche l’abbacchio o l’agnello), metterlo in una pentola e lasciare condensare, quindi aggiungere acqua e far bollire.  Quando il sangue è lessato e viene a galla, si raccoglie e si mette nella padella dove già soffrigge abbondante cipolla in olio d’oliva, quindi aggiungere polpa di pomodoro e sale, lasciando cuocere per un po’.

In quel giorno, o in uno festivo dei successivi prima dell’Epifania, immancabilmente si usava fare il giro dei presepi, visitando almeno quelli delle chiese maggiori.